Tom Standage

I social network al tempo di Newton

«I social network oggi vengono additati come nemici della produttività. Secondo una popolare quanto discutibile infografica che gira in rete, l’uso di Facebook, Twitter e altri siti del genere durante l’orario di lavoro costa all’economia americana 650 miliardi di dollari all’anno. I nostri intervalli di attenzione si stanno atrofizzando, i nostri punteggi ai test sono in calo: e tutto a causa di queste “armi di distruzione di massa”.

Ma non è la prima volta che si sentono lanciare allarmi di questo genere. In Inghilterra, alla fine del Seicento, c’erano timori simili su un altro ambiente di condivisione dell’informazione, che esercitava un’attrattiva tale da minare, apparentemente, la capacità dei giovani di concentrarsi sugli studi o sul lavoro: i caffè, i social network dell’epoca.

Come il caffè stesso, anche il caffè inteso come locale era stato importato dai paesi arabi. La prima coffeehouse in Inghilterra fu inaugurata a Oxford all’inizio degli anni Cinquanta del Seicento e negli anni successivi spuntarono centinaia di locali simili a Londra e in altre città. La gente andava nei caffè non solo per consumare l’omonima bevanda, ma per leggere e discutere gli ultimi pamphlet e le ultime gazzette, e per tenersi al corrente su dicerie e pettegolezzi. I caffè erano usati anche come uffici postali: i clienti ci si recavano più volte al giorno per controllare se erano arrivate nuove lettere, tenersi aggiornati sulle notizie e chiacchierare con altri avventori. Alcuni caffè erano specializzati in dibattiti su argomenti come la scienza, la politica, la letteratuta o il commercio navale. Dal momento che i clienti si spostavano da un caffè all’altro, le informazioni circolavano con loro.

Il diario di Samuel Pepys, un funzionario pubblico, è costellato di varianti dell’espressione “lì, nel caffè”. Le pagine di Pepys danno un’idea della vasta gamma di argomenti di conversazione che venivano trattati in questi locali: solo nelle annotazioni relative al mese di novembre del 1663 si trovano riferimenti a “una lunga e accesissima discussione fra due dottori”, dibattiti sulla storia romana, su come conservare la birra, su un nuovo tipo di arma nautica e su un processo imminente.

Una delle ragioni della vivacità di queste conversazioni era che all’interno delle mura di un caffè non si teneva conto delle differenze sociali. I clienti erano non solo autorizzati, ma incoraggiati ad avviare conversazioni con estranei di diversa estrazione sociale. Come scriveva il poeta Samuel Butler, “il gentiluomo, il manovale, l’aristocratico e il poco di buono, tutti si mescolano e tutti sono uguali”. Non tutti approvavano. Oltre a lamentare il fatto che i cristiani avessero abbandonato la tradizionale birra in favore di una bevanda straniera, i detrattori del fenomeno temevano che i caffè distogliessero le persone dal lavoro produttivo. Uno dei primi a lanciare l’allarme, nel 1677, fu Anthony Wood, un cattedratico di Oxford. “Perché l’apprendimento serio e concreto appare in declino, e nessuno quasi ormai lo segue più nell’Università?” chiedeva. “Risposta: a causa dei caffè, dove trascorrono tutto il loro tempo”».

Tom Standage, La Repubblica

 

Tom Standage, digital editor dell’Economist, è autore per noi di Una storia commestibile dell’umanità e Una storia del mondo in sei bicchieri.

 

 

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