Gli autori Codice al Salone del libro di Torino
Vi aspettiamo al Salone del libro di Torino (18-22 maggio) allo stand V74 e agli incontri con i nostri autori Andrea Fantini e Giacomo Destro.
In questi giorni l’intervista fatta da Raffaella Menichini di Repubblica a Evgeny Morozov si legge molto e viene molto condivisa.
Vi abbiamo preparato un estratto da L’ingenuità della rete, libro che Evgeny Morozov ha pubblicato con noi nel 2011 (e a cui è seguito, nel 2012, Contro Steve Jobs) e che viene citato ad inizio articolo. Buona lettura!
Dal capitolo IV: Censori e sentimenti
«La propaganda occidentale prodotta durante la Guerra fredda può non essere stata molto convincente, ma ha creato un mito dell’autoritarismo che, a distanza di un decennio dall’inizio del XXI secolo, è ancora difficile da cancellare. E molti osservatori occidentali tuttora immaginano gli stati autoritari come posti popolati da sosia iperattivi di Arthur Koestler (svegli, impassibili di fronte al terrore, pronti ad assumersi dei rischi esistenziali in nome della libertà) e governati da una schiera di ridicoli personaggi della Disney: stupidi, distratti, interessati solo alla propria sopravvivenza, e sempre a un passo dal suicidio di massa. Lotta e opposizione sono le condizioni naturali dei primi; passività e incompetenza lo sono dei secondi. Per cambiare il mondo basta collegare tra di loro i ribelli, fargli scorrere davanti fiumi di scioccanti statistiche che non hanno mai visto, e dargli un bel po’ di gadget luccicanti. Bingo! La rivoluzione è già in marcia, perché l’eterna rivolta, da questo punto di vista, è la condizione naturale della vita nei paesi autoritari.
Questa breve e schematica descrizione dell’autoritarismo moderno ci dice molte più cose sui pregiudizi occidentali di quante ce ne dica sui regimi autoritari moderni. Il fatto che al giorno d’oggi ci siano al mondo ancora regimi dittatoriali può essere spiegato da una grande varietà di fattori (risorse energetiche, esperienza delle regole democratiche scarsa o nulla, aiuti segreti da parte di immorali democrazie occidentali, cattivi vicini), ma un popolo disinformato che chiede a gran voce di essere liberato attraverso il bombardamento elettronico di leggende urbane e tweet vibranti non è sicuramente uno di questi. La maggior parte dei cinesi o russi di oggi non va a letto leggendo Buio a mezzogiorno per poi svegliarsi con i jingle di Voice of America o Radio Free Europe; è più probabile che anche loro, come gli occidentali, si sveglino con la stessa cantilena di Lady Gaga che canta a tutto volume nell’iPhone. Molti amano la democrazia ma pensano che consista soprattutto nella giustizia ordinaria e non nella presenza di elezioni libere e altre istituzioni tradizionalmente associate al modello occidentale di democrazia liberale. Per molti votare non è così importante quanto ricevere un’istruzione o delle cure mediche senza dover corrompere una dozzina di avidi ufficiali. Inoltre i cittadini degli stati autoritari non necessariamente percepiscono i loro governi non democratici come illegittimi, perché la legittimazione può provenire da elementi diversi dalle elezioni: nazionalismo jingoista (Cina), paura di un’invasione straniera (Iran), rapido sviluppo economico (Russia), corruzione (Bielorussia) ed efficienza dei servizi di governo (Singapore) hanno raggiunto altrettanto bene lo scopo.
Per capire l’effetto di internet sull’autoritarismo bisogna guardare al di là dell’ovvio utilizzo del web da parte degli oppositori del governo, e studiare come esso abbia condizionato anche gli aspetti legati alla legittimità del governo autoritario moderno. Basta guardare più da vicino la blogosfera di quasi tutti i regimi autoritari per scoprire che brulica di nazionalismo e xenofobia, a volte talmente avvelenati che la politica governativa ufficiale al confronto sembra un illuminato cosmopolitismo. É difficile prevedere l’effetto che questa radicalizzazione del nazionalismo avrà sulla legittimità dei governi, ma le cose non sembrano condurre alla democratizzazione perfetta che alcuni si aspettano dall’avvento di internet. Per esempio i blogger che scoprono e rendono pubblica la corruzione delle amministrazioni locali potrebbero facilmente, e spesso lo sono, essere cooptati da politici di rango più elevato per entrare a far parte della campagna anticorruzione. É difficile valutare in questo caso l’impatto complessivo sulla forza del regime; i blogger potrebbero diminuire il potere delle autorità locali ma aumentare quello del governo centrale. Senza una visione chiara di come il potere venga distribuito tra il centro e la periferia e di come i cambiamenti di questa distribuzione influenzino il processo di democratizzazione è difficile prevedere il ruolo che internet potrebbe svolgere.
Guardiamo a come i wiki e i social network, per non parlare delle varie iniziative governative online, stanno migliorando le performance dei governi e delle imprese che sostengono. I leader autoritari di oggi, ossessionati dall’idea di modernizzare le loro economie, sputano più paroloni per frase di un editoriale medio della Harvard Business Review (Vladislav Surkov, uno dei principali ideologi del Cremlino e padrino della Silicon Valley russa, ha recentemente confessato di essere affascinato dal crowdsourcing). I regimi autoritari dell’Asia centrale per esempio stanno promuovendo attivamente un host internet di iniziative governative online. Il motivo per cui inseguono la modernizzazione non è tuttavia perché vogliono accorciare la distanza tra il cittadino e la burocrazia, bensì perché lo considerano come un modo per attrarre fondi da donatori stranieri (tipo il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank) rimuovendo al contempo gli ostacoli alla crescita economica.
Decora le tue finestre
La sopravvivenza del potere autoritario richiede sempre di più condivisione del potere e costruzione delle istituzioni: due processi che molti esperti di politica hanno tradizionalmente trascurato. Perfino alcuni lucidi osservatori della politica moderna come Zbigniew Brzezinski e Carl Friedrich hanno raccomandato ai lettori di un loro classico del 1965, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, di dimenticare le istituzioni nel loro complesso: “Il lettore si domanderà forse perché non parliamo della ‘struttura del governo’ o della ‘costruzione’ dei sistemi totalitari. Non lo facciamo perché queste strutture hanno scarsa importanza”.
Schemi concettuali così rigidi possono essere stati utili nel tentativo di capire lo stalinismo, ma sono una prospettiva troppo semplicistica per spiegare ciò che sta accadendo all’interno degli stati autoritari odierni, impegnati nell’organizzare elezioni, creare parlamenti e dare forma a sistemi giudiziari. Se i regimi autoritari sono tanto impavidi da concedere le elezioni, per ragioni loro, cosa ci fa pensare che non possano permettere anche l’esistenza dei blog, per ragioni che gli analisti occidentali magari non riescono ancora a capire?
“Chi studia i regimi autoritari dice spesso che le istituzioni servono solo a decorare le finestre“, scrive Adam Przeworski, docente di scienze politiche alla New York University, “ma perché certi autocrati dovrebbero preoccuparsi di fare una cosa del genere?”. Già, perché? Negli ultimi trent’anni gli analisti politici hanno accumulato molte possibili risposte: alcuni dittatori vogliono identificare i loro avversari più bravi facendoli competere in finte elezioni; altri vogliono cooptare i potenziali nemici offrendo loro di contribuire alla sopravvivenza del regime e piazzandoli in parlamenti privi di potere e altre istituzioni di pura e semplice rappresentanza; ce ne sono altri che vogliono semplicemente parlare una lingua democratica che li aiuti a ottenere fondi dall’Occidente, e le istituzioni, specialmente quelle che associamo tradizionalmente alla democrazia liberale, sono tutto ciò che l’Occidente di solito chiede.
Tuttavia sembra che i dittatori più innovativi non solo organizzino finte elezioni ma cerchino anche di circondarsi del lustro della tecnologia moderna. Come spiegare altrimenti un’elezione parlamentare del 2009 nella ex repubblica dell’Azerbaigian in cui il governo ha deciso di installare 500 webcam nei seggi elettorali? É stata una buona pubblicità, ma non ha reso le elezioni più democratiche, perché molte manovre sono avvenute prima che la campagna elettorale iniziasse, e una tale mossa potrebbe aver avuto conseguenze ancora più sinistre. Come alla vigilia delle elezioni ha detto ai reporter Bashir Suleymanly, direttore esecutivo del Centro di insegnamento per il monitoraggio delle elezioni e la democrazia dell’Azerbaigian, “I dirigenti locali e le organizzazioni finanziate dallo stato dicono ai loro dipendenti per chi devono votare e agitano lo spauracchio delle webcam che registrano la loro partecipazione e per chi votano». Anche le autorità russe credono che la trasparenza creata dalle webcam possa offrire loro credenziali democratiche. Dopo gli incendi devastanti che nell’estate 2010 hanno distrutto molti villaggi, il Cremlino ha installato delle webcam dove si stanno costruendo le nuove case in modo tale che il processo possa essere osservato in tempo reale (questo non ha impedito le lamentele dei futuri proprietari; vivendo in provincia non hanno computer né sanno usare internet).
Le istituzioni sono importanti, e ai dittatori piace costruirle, anche solo per prolungare la loro permanenza al potere. La relativa utilità di internet, della blogosfera in primo luogo, deve essere analizzata attraverso una lente “istituzionale” di questo tipo. Certi blogger sono troppo utili perché sia conveniente liberarsi di loro. Molti sono talentuosi, creativi e colti; solo dei dittatori poco lungimiranti deciderebbero di combatterli quando potrebbero invece sfruttarli in modo strategico. Per esempio è molto più utile costruire un ambiente in cui questi blogger rappresentino dei simboli di liberalizzazione, da spendersi nel proprio paese o all’estero, o almeno dove possano contribuire alla nascita di nuove idee per governi intellettualmente poveri.
Non sorprende che gli sforzi di istituzionalizzare i blog siano già iniziati in molti stati autoritari. In alcuni stati del Golfo i governanti stanno creando delle associazioni di blog, mentre uno dei più importanti burocrati russi ha proposto di recente di istituire una “camera dei blogger” che stabilisca degli standard di comportamento nella blogosfera, in modo che il Cremlino non debba ricorrere alla censura formale. In realtà è probabile che questa nuova camera sarà formata da blogger sostenitori del Cremlino: un altro modo per nascondere il fatto che il governo russo cerca di controllare internet senza bandire formalmente alcuni siti web. Questi sforzi possono fallire, e l’Occidente può solo sperare che questo succeda, ma suggeriscono che i governi autoritari hanno un’idea operativa dei blog che è lontana anni luce da quella di blogger come dissidenti del XXI secolo.
Se consideriamo tutte le attività di internet negli stati autoritari come essenzialmente politiche e di opposizione, perdiamo buona parte della loro ricchezza e diversità. Mentre tributano grande attenzione a come gli human flesh search engine* stanno rendendo il governo cinese più responsabile, raramente i media occidentali dicono che anche il governo cinese ha trovato il modo di cooptare gli stessi motori di ricerca a scopo di propaganda. Quando nel marzo 2010 un internauta della città di Changzhou si è lamentato dell’inquinamento del fiume Beitang e ha accusato il capo locale dell’ufficio di protezione dell’ambiente di non fare il suo lavoro, chiedendone le dimissioni, l’amministrazione locale ha mobilitato gli human flesh search engine del luogo per rintracciare la persona che aveva fatto il reclamo, così che potesse ricevere una ricompensa di 2000 yuan.
Una delle tentazioni che gli osservatori occidentali dovrebbero evitare è quella di interpretare il fatto che i governi autoritari cambino i loro metodi operativi come un segno di democratizzazione. É un errore comune tra coloro che ancora non capiscono che è l’eterno cambiamento, non la stagnazione, a permettere all’autoritarismo di sopravvivere così a lungo. Un moderno stato autoritario è come la nave di Teseo: è stata ricostruita così tante volte che anche coloro che ci viaggiano sopra non sanno se sia rimasto qualcosa del legno originario.
Nonostante importanti accademic-blogger occidentali come Glenn Reynolds di Instapundit.com esaltino i telefoni cellulari e sostengano che “trasformare una tirannide maoista/stalinista sanguinosa e indifferente in qualcosa che risponde alle telefonate al cellulare non è un risultato da poco», non dovremmo limitarci a darci pacche sulle spalle, battere le mani e lodare l’inesorabile marcia della libertà di internet. Una tirannia che risponde alle telefonate al cellulare è ancora una tirannia, i cui leader magari si divertono a trafficare con le applicazioni dell’iPhone. Non dobbiamo stabilire automaticamente che le tirannie non vogliano rispondere alle chiamate al cellulare. I presunti utili della “democratizzazione” sembrano decisamente meno impressionanti se pensiamo che hanno indirettamente facilitato la sopravvivenza delle dittature, anche se adesso si presentano sotto una veste leggermente diversa.
Il Cremlino ama i blog, e anche tu dovresti
A differenza dei tradizionali stereotipi occidentali, i dittatori moderni non sono solo un branco di pazzi allo sbaraglio che vagano confusi nei loro bunker, privi di informazioni, ignari di ciò che accade all’esterno, intenti a contare le loro ricchezze come Paperone e aspettando di essere deposti. Anzi, di solito producono e consumano attivamente informazioni, perché capire e raccogliere le informazioni (specialmente quelle che riguardano le minacce al regime) è fondamentale per la sopravvivenza di un regime. Solo che i dittatori non possono semplicemente intervistare la gente per strada, e quasi sempre devono ricorrere a intermediari. Di solito la polizia segreta.
Questo, comunque, raramente dà un’idea precisa di cosa stia accadendo, anche perché nessuno vuole assumersi la responsabilità delle inevitabili disfunzioni del sistema autoritario. Ecco perché nel corso della storia i dittatori hanno sempre cercato di diversificare i loro strumenti nel campo dell’informazione. La strategia internet di Mahmoud Ahmadinejad ha una ricca tradizione intellettuale alle spalle. Nell’Ottocento il monarca iraniano Nasi al-Din Shah installò linee del telegrafo in tutto il paese pretendendo resoconti quotidiani perfino dai funzionari più insignificanti del più piccolo dei villaggi, soprattutto per confrontarli con i resoconti che provenivano dai loro superiori. Una politica in linea con il consiglio del visir iraniano dell’XI secolo Nizam al-Mulk, il quale nel suo L’arte del governo sosteneva che ogni re dovrebbe avere almeno due fonti di informazione.
Il noto studioso di scienze sociali Ithiel de Sola Pool, uno dei maggiori esperti di tecnologia e democrazia del secolo scorso, è stato tra quelli che hanno dato forma al nostro modo di interpretare il ruolo che l’informazione svolge negli stati autoritari. “Lo stato autoritario è intrinsecamente fragile, e se l’informazione fluisce facilmente è destinato a crollare”, scriveva Pool, esprimendo un’idea che è diventata un patrimonio condiviso e che senza dubbio ha portato lui e i suoi numerosi seguaci a sopravvalutare il potere liberatorio dell’informazione. (Ex trotskista deluso, ha sopravvalutato anche il potere delle trasmissioni radio occidentali, usando le lettere che i cittadini dell’Europa dell’est inviavano a Radio Free Europe come una delle fonti principali del suo lavoro). Questo utopismo tecnologico deriva da una visione piuttosto ristretta della politica e delle dinamiche degli stati autoritari. Perché, se partiamo dal presupposto che, come afferma Pool, le strutture autoritarie si fondano sulla soppressione dell’informazione e poco altro, nel momento in cui l’Occidente trovasse il modo di aprire dei varchi in queste strutture, si troverebbe il modo di liberare il flusso di informazioni a beneficio degli oppressi.
A guardarle più da vicino, idee come quelle appena esposte sembrano addirittura controintuitive, e a ragione. Di sicuro avere accesso a più fonti di informazione è vantaggioso, anche solo perché un regime può individuare le minacce all’orizzonte. (In questo i dittatori iraniani del passato erano un po’ più sofisticati di molti studiosi contemporanei occidentali.) Che un’informazione pluralista e indipendente possa aiutare ad accrescere, o almeno a preservare, il loro potere, è un dato che non è sfuggito a coloro che governano gli stati autoritari. Un acuto osservatore degli ultimi anni dell’era sovietica osservava nel 1987: “Devono esserci stati giorni, forse la mattina dopo Chernobyl, in cui Gorbaciov ha desiderato di poter comprare l’equivalente russo del Washington Post e scoprire cosa diavolo stesse succedendo nel suo paese delle meraviglie socialista». (E in effetti Gorbaciov ha riconosciuto che le trasmissioni radio occidentali l’hanno aiutato a seguire il breve colpo di stato dell’agosto 1991, quando venne chiuso nella sua dacia di Sochi).
Ebbene, adesso non c’è più bisogno di andare a caccia di equivalenti russi del Washington Post. Anche se manca una vera stampa libera, Dmitrij Medvedev può leggere quasi tutto ciò di cui ha bisogno nei molti blog russi: come ha confessato lui stesso è così che cominciano molte sue giornate; ed è noto per essere anche un grande fan degli e-book e dell’iPad. Il presidente russo non ci mette molto tempo a scovare le lamentele: chiunque abbia del risentimento verso un funzionario locale può lasciare un reclamo sotto forma di commento proprio sul suo blog, pratica molto popolare in Russia. Per ottenere dei “punti propaganda” in più, i suoi sottoposti amano intraprendere azioni di grande risonanza in risposta a queste lamentele, sostituendo l’infrastruttura fatiscente e licenziando il funzionario corrotto. Questo, naturalmente, viene fatto in modo selettivo, più per un ritorno d’immagine che per una reale volontà di migliorare il sistema. Nessuno sa cosa accada quando le lamentele sono troppo critiche o assumono la forma della denuncia, ma i messaggi molto arrabbiati vengono velocemente rimossi dal blog. (Anche a Vladimir Putin, predecessore di Medvedev alla presidenza e attuale primo ministro russo, piaceva collezionare le lamentele della gente chiamandola a intervenire durante il suo annuale discorso televisivo; quando nel 2007 un ufficiale di polizia ha detto al centralino che voleva denunciare la corruzione della sua unità, la sua chiamata è stata rintracciata e lui è stato punito). Accade lo stesso in Cina, dove le autorità stanno bloccando i contenuti apertamene antigovernativi ma appaiono molto tolleranti verso i blog che denunciano la corruzione locale. Le autorità di Singapore monitorano regolarmente i blog che criticano la polizia e dicono di voler accogliere suggerimenti dagli internauti. Così, mentre gli argomenti di molti blog nei regimi autoritari moderni sono chiaramente non graditi ai governi, ce ne sono molti altri che essi approvano o cercano addirittura di incoraggiare.
I dittatori e i loro dilemmi
Mentre è chiaro che pochi regimi vogliono chiudere completamente le vie di comunicazione, anche solo per tenersi informati sulle nuove minacce, la censura di certi contenuti è inevitabile. Negli ultimi trent’anni, la necessità di censurare ha posto i regimi autoritari di fronte a una scelta: o censuravano, pagandone le conseguenze economiche poiché la censura è incompatibile con la globalizzazione, o non censuravano e rischiavano una rivoluzione. Come ha detto Hillary Clinton nel suo discorso sulla libertà: “I paesi che censurano notizie e informazioni devono riconoscere che da un punto di vista economico non c’è differenza tra la censura di un discorso politico e la censura di un discorso commerciale. Se agli imprenditori delle vostre nazioni negate l’accesso alle informazioni, questo avrà delle inevitabili conseguenze sulla crescita economica”. In un reportage sul ruolo della tecnologia nella rivoluzione di Twitter in Iran, il New York Times ha espresso un’opinione simile: “Le tecnologie digitali sono di importanza cruciale per le economie moderne, e i governi repressivi pagherebbero un prezzo molto alto per tenerle a distanza, se questo fosse possibile”.
Questa idea binaria (i dittatori non possono globalizzare se non a prezzo di aprire le porte a orde di consulenti d’investimento che scorazzano per i loro paesi in cerca del prossimo obiettivo) è nota come il dilemma del dittatore, e ha trovato molti sostenitori tra i politici, soprattutto tra quelli che sostengono il ruolo positivo di internet. Tuttavia, l’esistenza di un legame diretto tra crescita economica e moderna censura su internet non è autoevidente. Potrebbe essere un’altra idea nociva e scarsamente analizzata che ereditiamo dalla Guerra fredda?
Nel 1985 George Schultz, allora segretario di stato americano, è stato uno dei primi ad articolare questo concetto, quando disse che “le società totalitarie si trovano di fronte a un dilemma: o soffocare queste tecnologie e restare indietro nella nuova rivoluzione industriale, oppure accettarle e vedere inevitabilmente eroso il loro controllo totalitario”. Secondo Schultz questi governi erano spacciati: “Non hanno scelta, perché non saranno mai in grado di bloccare l’ondata di progresso tecnologico”. L’idea di Schultz, espressa in un autorevole articolo sul Foreign Affairs, gli fece ottenere molti sostenitori. Un editoriale del 1989 sul New Republic, uscito appena una settimana dopo la cacciata dei contestatori da piazza Tienanmen, affermava che i dittatori si trovavano di fronte a un bivio: potevano “lasciare che la gente pensasse da sola ed esprimesse le proprie opinioni […], o contemplare la propria decadenza economica”.
Era musica per le orecchie di molti europei dell’est di quel periodo, e il successivo tracollo del sistema sovietico sembrò avvalorare il determinismo del New Republic. Di fatto, queste previsioni erano il prodotto intellettuale dell’ottimismo di quel periodo. Chiunque avesse annusato l’aria, alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, non avrebbe potuto non cogliere il collegamento tra due teorie molto popolari all’epoca, una riguardante la tecnologia e l’altra la politica, che misteriosamente portavano lo stesso nome. La prima, sviluppata dal futurologo Alvin Toffler, postulava che il rapido cambiamento tecnologico dell’epoca avrebbe dato origine alla società della terza onda, caratterizzata dall’accesso democratico alla conoscenza e dalla nascita dell’era dell’informazione. Per Toffler la tecnologia dell’informazione ha seguito altre due ondate rivoluzionarie, l’agricoltura e l’industrializzazione, che hanno inaugurato un periodo completamente nuovo nella storia umana.
La seconda teoria, sviluppata dallo studioso di politica di Harvard Samuel Huntington, postulava che il periodo fosse segnato dall’emergere della terza ondata di democratizzazione mondiale, con sempre più paesi che sceglievano forme di governo democratiche. (Era la terza perché, secondo Huntington, è stata successiva alla prima ondata, durata dall’inizio dell’Ottocento fino all’inizio del fascismo in Italia, e alla seconda, durata dalla fine della Seconda guerra mondiale fino a metà degli anni Sessanta.)
Era impossibile non accorgersi che queste due terze ondate coincidevano in alcuni punti della storia recente, e il 1989 sembrava proprio uno di questi punti. Queste teorie implicavano un forte nesso causale tra la marcia della democrazia attorno al globo e il sorgere della rivoluzione dell’informazione; un nesso spesso intuito ma raramente dimostrato. Il dilemma del dittatore si è rivelato un’utile formuletta, un modo di esprimere l’inevitabilità del collasso dei sistemi autoritari quando messi a confronto con fax, fotocopiatrici e così via. Seguendo l’esempio di George Lead, tra il 1990 e il 2010 molti importanti funzionari del governo degli Stati Uniti, inclusi James Baker, Madeleine Albright e Robert Gates, hanno parlato del dilemma del dittatore come se facesse parte del senso comune. Ma è stato l’economista della Columbia University Jagdish Bhagwati a cogliere nel modo più eloquente l’essenza del dilemma: “Il pc [personal computer] è incompatibile con il PC [Partito Comunista]”. Essendo un intellettuale libero, Bhagwati può credere ciò che vuole senza dover fare i conti con ciò che accade nel mondo reale, ma i leader politici non possono permettersi questo lusso, anche perché è in gioco l’efficacia delle politiche future. Il pericolo di soccombere alla logica del dilemma del dittatore, così come ad altre teorie simili sull’inevitabile trionfo del capitalismo o sulla fine della storia, è ciò che dà ai leader politici un pericoloso senso di inevitabilità storica e incoraggia un approccio indolente in merito alle questioni politiche. Se gli stati autoritari affrontano questo serio, perfino mortale, dilemma, perché rischiare di cambiare le cose con un intervento affrettato? Un ottimismo così gratuito porta inevitabilmente all’inazione e alla paralisi.
Thomas Friedman, editorialista degli affari esteri del New York Times, con il suo solito stile ha banalizzato, e reso popolare, il dilemma del dittatore coniando una nuova espressione, sindrome da immunodeficienza al microchip: “una malattia che può colpire qualunque sistema tronfio e sclerotico nell’era post-Guerra fredda. Di solito ne soffrono paesi e aziende che non si sono vaccinati contro i cambiamenti apportati dai microchip e dalla democratizzazione della tecnologia, della finanza e dell’informazione”. Grazie a internet i governi autoritari sono condannati: “Nel giro di pochi anni ogni cittadino del mondo sarà in grado di confrontare il proprio […] governo con quello del vicino”. (Chissà per quale motivo gli americani, malgrado abbiano accesso illimitato a internet, non seguono il consiglio di Friedman, non fanno da soli questi confronti e non si accorgono che gli altri governi hanno un approccio più ragionevole, per esempio, riguardo all’imprigionare i propri cittadini). Anche Nicholas Kristof, sobrio collega di Friedman al New York Times, crede fermamente che il collasso del potere autoritario per mano dell’informazione sia inevitabile, e scrive che “dando al popolo cinese la banda larga”, i leader cinesi “stanno scavando la tomba al Partito Comunista”.
Si ritiene comunemente che internet sconfiggerà l’autoritarismo a colpi di informazione: i leader autoritari non possono sopravvivere senza tecnologia dell’informazione, ma andranno a pezzi anche se le permetteranno l’accesso perché i loro cittadini, avidi di Disneyland, Big Mac e Mtv, scenderanno in strada chiedendo vere elezioni. Il problema di questa teoria è che quando arriva il momento di testarne la validità e di prendere in considerazione il caso di internet, non si trova uno stato che non sia riuscito a sopravvivere alle sfide poste dal dilemma. A parte la Corea del Nord, tutti gli stati autoritari hanno accettato internet, e la Cina ha più internauti di tutta la popolazione degli Stati Uniti. Gli esperti e i politici non hanno capito la flessibilità e la raffinatezza dell’apparato di censura basato su internet. Alla base del dilemma del dittatore c’era l’idea che fosse impossibile attivare dei meccanismi di censura in grado di bloccare attività apertamente politiche su internet e tuttavia permettere (forse addirittura accelerare) qualsiasi altra attività che contribuisse alla crescita economica. Idea che si è rivelata falsa: i governi hanno imparato l’arte di filtrare le informazioni grazie alle parole-chiave, riuscendo a bloccare i siti web sulla base degli url e perfino dei testi di quelle pagine. Il passo successivo per i governi dovrebbe essere, a rigor di logica, riuscire a limitare l’accesso ai contenuti basandosi su dati demografici concreti e precisi comportamenti dell’utente, scoprendo chi sta cercando di accedere, per quale motivo, a cos’altro ha avuto accesso nelle due settimane precedenti e così via, prima di decidere se bloccare o consentire l’accesso a una certa pagina.
In un futuro non troppo distante, un banchiere che legge solo le notizie della Reuters e il Financial Times sarà lasciato libero di leggere ciò che vuole, anche le pagine di Wikipedia sulle violazioni dei diritti umani. Invece, a una persona con un’occupazione sconosciuta che legge occasionalmente il Financial Times ma è anche collegata a cinque ben noti attivisti politici tramite Facebook, e che ha scritto dei commenti su blog in cui ha usato parole come democrazia e libertà, sarà permesso di visitare solo siti web gestiti dal governo (o, se è un importante obiettivo dell’intelligence, gli sarà permesso di visitare altri siti, ma le sue attività online saranno attentamente controllate)».
*Uno human flesh search engine (letteralmente “motore di ricerca di carne umana”) è un motore di ricerca costituito da un vasto gruppo di utenti della rete i quali si occupano di cercare informazioni di qualsiasi genere su altre persone (basandosi su blog, forum, social network, risultati dei motori di ricerca, così come di ricerche non informatiche) al fine di identificarle, renderne pubblici i dati ed esporle all’umiliazione pubblica stigmatizzandone i comportamenti. In molti casi per avviare la ricerca sono sufficienti un nome, un’immagine o un indirizzo IP. Si tratta di operazioni che violano qualsiasi norma sulla privacy, e non essendo in alcun modo regolamentate non prevedono garanzie. Questo tipo di ricerche, che non si basano su algoritmi o database informatizzati, può essere attivato a partire da richieste postate su siti internet da singoli individui. Fenomeno nato e diffusosi in Cina, si configura come un mezzo di comunicazione e condivisione di massa molto potente e può essere usato per i motivi più disparati: rintracciare individui meritevoli, scovare e punire pirati della strada, truffatori e delinquenti comuni o amministratori e funzionari corrotti, ma anche per fini meno nobili e, in definitiva, scorretti. [N.d.R.]