Ebbene, il nuovo libro di Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini – “Liberi di crederci” – parte da una visione empirica dei fenomeni che si sviluppano in rete e arriva a proporre un’interpretazione delle distorsioni della conoscenza che ribilancia il giudizio, dando maggiore importanza alle responsabilità umane e meno alle piattaforme tecniche. Per esempio, gli autori mettono in discussione l’ipotesi di Pariser sostenendo che non è empiricamente osservabile. In generale vedono la tecnologia non come una causa ma come un amplificatore delle tendenze. Il narcisismo che sembra pervadere molti comportamenti che si vedono nei social network, per esempio, non è certo causato dalle macchine. Casomai le macchine ne moltiplicano le conseguenze. La chiave di lettura è che la connessione aumentata dalle macchine in rete favorisce fenomeni che assomigliano a epidemie. Il rimedio possibile è guidato dalla stessa metafora. Le epidemie – comprese quelle delle fake news – si possono contenere. Ma il vero rimedio è quello di favorire la diffusione di anticorpi».
La verità è un concetto labile e sfuggente che coesiste con un essere umano emotivo e imperfetto, limitato nelle sue capacità conoscitive. L’avvento di internet, e soprattutto dei social network, ha facilitato l’accesso a una grande massa di informazioni senza mediazioni, e ha generato l’illusione che questa porta d’ingresso conducesse alla conoscenza, fino ad allora prerogativa delle élite. La rete però sta tradendo le aspettative di molti, producendo, più che un’intelligenza, una disinformazione pericolosa (e spesso strumentalizzata) e una grave radicalizzazione nell’opinione pubblica. Così, a colpi di paradossi e cortocircuiti, il World Economic Forum nel 2013 ha inserito la disinformazione nella lista delle minacce globali, molte delle quali (da Trump alla Brexit, fino ai movimenti antivaccinisti) sembrano oggi aver preso forma; e secondo l’autorevole Oxford Dictionary, “post-truth” è diventata la parola del 2016.