Intervista a Gianluigi Paragone del 14 aprile 2013*.
*All’epoca Paragone conduceva L’Ultima Parola in onda ogni venerdì alle 23.00 su Rai2.
Ci piacerebbe conoscere, dal suo punto di vista, come è cambiato lo spettatore contemporaneo nel suo modo di informarsi e di farsi un’opinione.
Voi avete utilizzato la definizione spettatore contemporaneo. Lo spettatore contemporaneo è un po’ meno spettatore e un po’ più attore. E qui c’è una differenza fondamentale circa l’accesso ai nuovi media. Perché se per spettatore contemporaneo identifichiamo uno spettatore contaminato, cioè capace di usare in maniera differente o in contemporanea le due piattaforme (quella tradizionale e quella moderna), allora secondo me dobbiamo fare una prima distinzione che riguarda anche il target di spettatore, quindi definirlo per età e un po’ per professione, scolarizzazione ecc. In seconda battuta dobbiamo ammettere che lo spettatore contemporaneo è meno passivo e più protagonista, meno spettatore e più attore. Lo spettatore contemporaneo vuole interagire attraverso la rete sui temi proposti.
Pensa che lo spettatore contemporaneo abbia una dieta mediale spezzettata su più media o ritiene che ci sia la predominanza di un solo medium?
Diciamo che esistono i fanatismi in un campo come nell’altro. L’integralista della televisione generalista non accetta contaminazioni di linguaggio così come, di contro, il fondamentalista dei nuovi media non accetta la contaminazione dei vecchi media. Queste due posizioni esistono e ce ne accorgiamo. C’è chi vuole utilizzare il medium come puro tramite, e allora non è fanatico né di una posizione né dell’altra perché ha capito che il mezzo, qualunque esso sia, è importante per entrare nel vivo di una discussione. È più importante la discussione che non il medium, e quest’ultimo è il tramite per sviluppare o per entrare dentro la discussione stessa. Tornando alla domanda rispondo che è giusto che questa dieta sia spezzettata. Se è vero che la dieta è funzionale allo stare in forma, allo stesso modo la dieta mediale è funzionale alla possibilità di formare per se stessi ma anche per gli altri un’idea. Il massimo del… benessere mediale.
Quali sono, secondo lei, i tempi e i luoghi di fruizione dell’informazione oggi?
I tempi e i luoghi di fruizione sono oggi dilatati. Nel caso di L’Ultima Parola, essendo una trasmissione in differita, essa sperimenta ancora di più la tendenza dello spettatore a fruire dei contenuti in posti e tempi assai diversi, e poi a dibattere su quegli stessi temi in momenti diversi. Le trasmissioni in diretta invece raggiungono una maggiore interattività.
Per quanto riguarda la sua esperienza, il contatto con il pubblico avviene solo durante la diretta televisiva o anche prima e dopo il programma?
Noi, come accennato, non andiamo in diretta: quindi questo è già anche un caso particolare. Andiamo in differita, anche se durante la messa in onda di L’Ultima Parola la discussione va avanti. Io ho dei blogger tra il pubblico che già nel momento in cui registriamo cominciano ad avviare una discussione, spesso utilizzando l’hashtag #ultimaparola o utilizzando la pagina Facebook. È un po’ come il primo tempo di una partita: la seconda parte – quella decisiva, quella che fa il risultato – si svolge quando noi andiamo in onda. Lo spettatore, laddove è in differita, non può proprio interagire appieno. Allora interagisce all’interno della sua comunità: non è un male di per sé perché non sempre lo spettatore, anche quando la trasmissione è in diretta, può avere un ruolo da protagonista. È protagonista rispetto a quel tema o ai temi – che egli ha scelto, altrimenti cambierebbe canale – proposti dalla trasmissione ed è protagonista in un campo di gioco diverso, quello della sua community o della community hashtag #ultimaparola.
Chi vede il suo programma in tv percepisce l’interazione con i social network?
Non è importante in assoluto. È come quando ci si riconosce parlando con una cadenza dialettale e si capisce la provenienza. Ecco, il fatto di utilizzare alcuni temi, alcune parole, ti permette di essere riconosciuto da qualcuno. Però, alla fine, tu puoi avere una cadenza piuttosto che un’altra ma stai parlando in italiano, quindi ci si capisce tutti. Qui è la stessa cosa, è un discorso di sfumature, di venature. A meno che tu non voglia fare una trasmissione interamente a uso e consumo di un telespettatore contaminato. Ma la televisione generalista questo discorso non lo può fare.
Vorremmo ora sapere qual è il ruolo dei social media all’interno delle vostre redazioni. Modificano le vostre scalette e i vostri temi?
Se parliamo di scaletta no, perché la scaletta presuppone il ruolo da protagonista della redazione e di chi la guida. La scaletta è la sintesi della linea editoriale e perché sia tale qualcuno deve chiudere il ragionamento, lo deve sintetizzare fino a ottenere la scaletta, che è un po’ il vestito del conduttore (o dell’autore, quando in una trasmissione ci sono entrambe le figure; io per esempio sono anche autore della trasmissione). È il mio vestito, quello che io riesco a cucire e portare in vetrina. Ecco, lì non può entrare la community o lo spettatore contemporaneo. La rete, piuttosto che i nuovi media o i social network, invece entra in tempi e modi diversi, e agevola parecchio il lavoro. Per cominciare, spesso le storie nascono da un dialogo su Facebook, quindi si chiedono informazioni e racconti; da lì comincia la prima conoscenza di un caso, di una storia, di un fatto politico. Parlo della scelta del servizio, non del tema. Si cercano i link, si cerca il gancio a cui legare la corda. Ma la rete/community ha anche un altro valore: funge da termometro, permette di capire quali sono i temi d’attualità. Nelle ultime 48 ore può accadere che un tema particolarmente acceso diventi una spia per la redazione. Come dire “attenzione, questa roba in rete prende parecchio”. Si tratta, ripeto, di una spia. Anticipo una possibile obiezione: allora cosa fate, siete vincolati agli umori della rete? No, non lo puoi fare, perché nella totalità del pubblico televisivo la specificità del telespettatore “contaminato” è ancora bassa, quindi non è detto che un tema molto dibattuto in rete coincida con il tema di cui il telespettatore televisivo generalista vuole sentir parlare.
Il pubblico ha la possibilità di interagire davvero con la vostra redazione? Vengono usati, ai fini della pun- tata, i commenti degli spettatori e i contenuti da loro prodotti?
Il pubblico sicuramente interagisce molto tramite la rete, ma accade – e me ne accorgo per esempio io in prima battuta, perché i miei account li curo personalmente – che rispetto ad alcune puntate di forte trazione politica ci sia una parte della comunità che mi dice “Paragone, però, trattiamo il tema delle banche”, “Trattiamo il tema dell’uscita dall’euro”. Io posso stare attento a quello che la community de L’Ultima Parola mi va dicendo, ma non posso pensare di applicare sic et simpliciter il discorso della community su un discorso del telespettatore televisivo, anche non contaminato. Altrimenti correrei il rischio di fare una trasmissione a uso e consumo di coloro i quali – e tra l’altro non coincidono al 100% – partecipano a delle discussioni ma poi però, un po’ anche per fanatismo, non le guardano in televisione, perché si sono già cibati del discorso e del confronto che nasce in rete. Sarà sempre così: chi fa tv generalista deve pensare anche ai numeri di ascolto. Per chiudere, non si può sovrapporre in maniera perfettamente aderente l’identità – che a me piace – dello spettatore contemporaneo con il telespettatore tradizionale.
La vostra redazione è cambiata con l’avvento dei nuovi media?
Io ho una redazione giovane, quindi siamo già allenati alla modernità del mezzo. È una redazione che non si pone il problema del prima e del dopo, nel senso che usa i nuovi media perché li conosce… naturalmente.
Chi cura gli account online? Sono account di programma o personali?
Esiste l’account di programma, ma io ho anche un account personale che gestisco e curo autonomamente.
Che futuro immagina per quanto riguarda il rapporto fra mainstream e rete?
Si tratta di un dibattito lungo. Io ho sempre sostenuto che mi piace la contaminazione, ma la contaminazione non è far entrare i blogger in tv oppure mettere la striscia dei tweet. Quella è ancora televisione tradizionale. Se metti l’hashtag in primo piano piuttosto che una stringa con i tweet che passano non stai facendo contaminazione: è semplicemente televisione normale. Dov’è allora la contaminazione? La contaminazione può essere totale anche senza mettere i tweet in sovraimpressione. Come fa allora a essere totale? È una questione di linguaggio. L’informazione via web, via rete, è un’informazione che tende alla massima trasparenza possibile, perché tu avendo mille canali di accesso e di uscita puoi formarti un’idea, ma il percorso bene o male è il tuo e sei tu il protagonista di quel percorso. Se la televisione vuole far sua la modalità della rete, deve imparare a parlare quel linguaggio, cioè non deve avere paura di trattare qualsiasi cosa. Perché sono queste le sfide che ti lancia la rete. La sfida che ti lanciano i blogger e il mondo web è la sfida alla televisione tradizionale nel dire “noi non censuriamo nessuno, voi siete in grado di non censurare nessuno?”. Poi non è vero che la rete non censuri nessuno, però diciamo che l’idea dominante è questa. Se infatti qualcuno facesse un sondaggio “è più libera la tv o la rete”, la risposta sarebbe “la rete”. La percezione dell’informazione sta in questi termini. Allora la sfida è di linguaggio. Quando per la prima volta portai, ormai due anni fa, i blogger dentro L’Ultima Parola (perché avevo deciso che dovevo completamente mutare pelle alla trasmissione), la sfida che mi hanno lanciato è “sei tu che ci sei venuto a cercare. Noi siamo molto ostili alla tv, sappi che ti sfideremo sul tema delle cose che si possono o non si possono dire”.
Oggi, con l’interazione con i social network, la televisione sta avendo una seconda vita? Per i programmi televisivi, esiste un second screen?
Temo che utilizziamo due concetti come sinonimi: tv e monitor. Il monitor vive più a lungo grazie alle nuove tecnologie. Ti puoi portare in giro la televisione con l’iPad o il telefonino, ma addirittura puoi ritrovartela sugli schermi in metropolitana o in qualsiasi altro luogo. Questo va a modificare tutto il paradigma dell’informazione. Sartori è stato bravo a fotografare questo cambiamento di paradigma: da Homo sapiens – quindi la parola al centro – a Homo videns, quindi il concetto video che domina. Però attenzione, perché un conto è la tv e un conto è il monitor. Un conto è la televisione e un conto è il televisore. I nuovi apparecchi allungano il monitor, non allungano la televisione, quindi la tv può vivere una seconda vita solo se accetta la sfida dei linguaggi. Se invece si chiude in se stessa e conserva le caratteristiche della tv generalista allora perde. Però anche qui bisogna fare un’ulteriore riflessione: per quanto tempo la tv generalista potrà sopravvivere a una parcellizzazione degli ascolti? La torta degli ascolti per la televisione generalista non è più quella di 10 anni fa. Sei generalista perché tendi a un maggior numero di persone o sei generalista perché hai inventato un nuovo tipo di linguaggio? Io penso che purtroppo non siamo lontani dal capolinea della tv generalista, perché quando i numeri saranno decisamente diversi a causa del crescere delle altre televisioni – non sto parlando di qui a due anni – allora avrà vinto il linguaggio, il nuovo linguaggio. La tv è costretta a mutare pelle, e tale mutamento non sarà solo una veste grafica: sarà sostanza, essenza. Sarà nuovo linguaggio. Per quanto riguarda il concetto di second screen, sicuramente esiste, però dobbiamo fare attenzione. L’hardware – il tablet piuttosto che il computer – viene utilizzato come un’opportunità di seconda visione o prima visione differenziata quasi come se fosse un registratore moderno. Nel momento in cui si guarda quella puntata, la si sta guardando soltanto per vedere la puntata stessa; c’è quasi un rapporto bidirezionale fra lo spettatore e il programma che ha visto. Vedendo la puntata come una pay per view, cioè quando si ha voglia di guardarla, si rinuncia però alla possibilità di entrare in una community di discussione, perché la community c’è già stata. Al massimo si può entrare in una coda di discussione, e di questo si è consapevoli. Quindi sono due modi per leggere lo stesso medium, quasi come se fosse appunto una specie di MySky, una specie di videoregistratore, che ti dà anche questa possibilità. Non credo che noi che operiamo nell’informazione televisiva dobbiamo stare attenti a questa parte: la disponibilità di contenuti nei momenti in cui ne ho voglia non è importante, perché quello è un fattore tecnico. A me interessa piuttosto il discorso di comunità, mi interessa conoscere il feedback della discussione, vedere cosa rimane appiccicato allo spettatore contemporaneo, cosa rimane appiccicato della discussione che io ho sottolineato e portato avanti. La gente ha a disposizione molti strumenti; ogni strumento ha il suo tempo, il suo spazio, la sua collocazione. Questo rappresenta un aspetto tecnico; è uno strumento che nel bouquet di possibilità ha anche questo. A me non interessa se lo spettatore guarda il prodotto alla televisione, su MySky, sul tablet, piuttosto che usare – lo dico per paradosso – una cassetta VHS o un DVD che si è registrato.
L’intervista è tratta da Cross-news. L’informazione dai talk show ai social media, di Lella Mazzoli.
Web e social network hanno alimentato negli ultimi anni la crescita di nuovi modi di comunicare e informarsi. Quale ruolo sta giocando la televisione in questo panorama? In che misura la tv e i suoi protagonisti dialogano con queste dinamiche? I talk show, territorio di confine tra intrattenimento e informazione, sono da questo punto di vista un ottimo osservatorio.
Lella Mazzoli li ha visti da spettatrice, è stata nelle loro redazioni, ne ha intervistato i conduttori.
Interviste a Giovanni Floris, Corrado Formigli, Maria Latella, Gianluigi Paragone, Salvo Sottile, Sarah Varetto e Andrea Vianello.
Il libro sarà presentato domani alle 18.30 alla libreria Trittico a Milano. Intervengono Gianluigi Paragone di La7, il direttore di Wired Massimo Russo, il direttore di Donna Moderna Annalisa Monfreda e Luca Tremolada di Nòva – Il Sole 24 Ore. Introduce e modera Piero Dorfles.
«È vero, come sembra, che alcuni trenta-quarantenni sono ritornati davanti alla tv con il telecomando in una mano e lo smartphone nell’altra?»
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