Abbiamo intervistato Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini, autori di Utopie. Percorsi per immaginare il futuro.
Oscar Wilde diceva che “una carta del mondo che non contiene il paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l’umanità approda di continuo”.
Ma può avere ancora un senso, oggi, parlare di Utopia, di utopie, di un’ipotetica Città del Sole? Forse no.
Può però senz’altro avere un senso fare riferimento, se non ai Tommasi Moro e Campanella, almeno a tutto ciò che sarebbe giusto sognare per una società più desiderabile. Perché, come dice Lella Mazzoli in quest’intervista “in una società difficile come quella in cui viviamo si ha bisogno di speranza, e credo che il termine utopia racchiuda questo valore e ne includa tanti altri”.
Gli antichi greci raccontano che quando Pandora, moglie di Epimeteo (e quindi cognata di Prometeo, frattanto già incatenato al Caucaso), scoperchiò il vaso liberando la malattia, la pazzia, la carestia, e tutti i mali del mondo, l’unica cosa a rimanervi dentro quando lei terrorizzata lo richiuse fu appunto la speranza.
La sola cosa che si possa sperare di conservare: la speranza. Più speranza per le speranze di domani.
Utopia come anelito all’inesistente, al modello ideale. Ma utopia anche, e soprattutto, come stimolo al miglioramento, forza propulsiva e superamento di un difficile presente. La sociologa Lella Mazzoli e il giornalista Giorgio Zanchini hanno interrogato alcuni protagonisti del panorama culturale italiano, chiedendo di proporre, ognuno dal proprio osservatorio, una definizione di utopia, per contribuire così a tracciare una mappa ideale del futuro. Le voci di Dorfles, La Porta, Sinibaldi e degli altri autori creano così un fitto dialogo tra arti figurative, filosofia, narrativa, critica sociale, teatro, tecnologia e storia dell’industria. Un affresco del contemporaneo che offre strumenti originali per leggere con intelligenza la nostra società e le sue possibili evoluzioni.
LELLA MAZZOLI, GIORGIO ZANCHINI
Quale valore sociale attribuire oggi all’utopia? Perché, in un momento storico così critico come il nostro presente, in cui sembra mancare qualsiasi punto concreto di riferimento, dovremmo rivolgerci a un “non-luogo”?
Lella Mazzoli: Non è di oggi il tema della Utopia, è del contemporaneo Utopie. Dunque una lettura plurale di un concetto che nasce lontano ancor prima di Tommaso Moro al quale si fa risalire il conio del termine. Se vogliamo parlare di valore sociale oggi più che in passato Utopia ha valore. Proprio in una società difficile come quella in cui viviamo si ha bisogno di speranza e credo che il termine utopia racchiuda senz’altro questo valore e ne includa tanti altri. Implica uno stare più che fuga quindi luogo più che non luogo. Un luogo magari non rigidamente ancorato ma che ognuno può costruire e ri-costruire a seconda delle contingenze. Questo non significa aleatorietà o sogno impossibile ma concretezza. La concretezza di entrare in contesti di vita che, pur complicata, è resa possibile dal pensiero positivo e dall’agire.
Giorgio Zanchini: In realtà – proprio alla luce dei saggi contenuti in Utopie – si capisce come la postmodernità c’abbia aiutato a decostruire ed arricchire il concetto di utopia. E a renderlo quindi anche molto più plastico di come c’hanno insegnato letteratura e filosofia politica sino a pochi anni fa. Nell’epoca delle grandi ideologie, delle grandi narrazioni, l’utopia aveva una forte impronta palingenetica, di cambio di paradigma. Oggi, nell’età del disincanto, nell’età post-ideologica, credo che l’utopia sia un concetto più prosaico ma anche più fungibile, più utile. Perché è un anelito, un puntello critico, una stampella per non accettare le cose come stanno, per pensare ai cambiamenti possibili, per non essere concilianti. Una specie di redenzione domestica.
L’utopia, nella storia, è stata anche fonte di mali. Cosa mette al riparo l’utopia (intesa come sguardo ideale a una società migliore, perfetta) dalla sua “metà oscura”?
LM: La pratica quotidiana, i sentimenti di incertezza, una situazione mondiale preoccupante. A questi elementi sociali si aggiungono quelli personali soggettivi. I due contesti quello del sociale e quello delle soggettività si influenzano, si intrecciano e danno origine a una situazione di pessimismo diffuso che nella attuale situazione è difficile arginare per portare le persone a pensare una società che possa essere buona o addirittura perfetta. D’altronde nessuna delle utopie descritte nel volume racconta la perfezione.
GZ: Mi riallaccio a quanto provavo a dire nella risposta precedente. Non sono convinto che Fukuyama – col suo libro sulla fine della Storia – avesse ragione, ma certo poneva una questione ineludibile. Dopo la dissoluzione dell’Urss, dopo la caduta del muro, la prospettiva delle democrazie liberali sembrava l’unica possibile, il modello vincente. Ora la crisi economica sta mettendo in grande difficoltà anche questo modello, e tuttavia sono convinto che la fine del ‘900 abbia abbattuto – o almeno inferto un colpo molto pesante – alle illusioni spesso tragiche della società perfetta, della società ideale. Siamo più consapevoli, più lucidi sul legno storto dell’umanità, molto più guardinghi verso coloro che vogliono raddrizzare le società.
Nel libro che avete curato l’indagine sul concetto di utopia attraversa diversi ambiti: il teatro, la filosofia, l’economia, la tecnologia, la letteratura, l’architettura eccetera. C’è oggi un ambito in cui secondo voi l’utopia è in grado di tradursi in una concreta possibilità di miglioramento sociale, in cui lo sguardo utopico è più promettente?
LM: L’utopia più vicina alla vita contemporanea è per me quella della comunicazione. Soprattutto se si pensa alla rete. Oggi la possibilità che ognuno ha di collegarsi con il mondo è alta. Non per tutti; il divide è fortemente presente. Legato agli investimenti, alle possibilità economiche personali e soprattutto alla cultura pone ancora tante, troppe differenze. La forza della comunicazione attraverso smart phone, tablet, dispositivi mobili che stanno soppiantando gli strumenti da scrivania è un altro di quei successi che sembravano lontani in un passato recente e che invece hanno superato il sogno e sono diventati realta. Un’utopia che si è realizzata. A questo aspetto, decisamente positivo, va aggiunta una riflessione sui contenuti, sulla capacita di memorizzazione che potrebbero rappresentare il risvolto negativo del sogno utupico del poter raggingere, comunicativamente, tutti.
GZ: Risponderò con un invito: leggete i saggi di questa raccolta. Perché mi pare che davvero spieghino con chiarezza dove, in che campi, oggi l’utopia possa tradursi in progetti concreti, in vite e ambienti migliori. Incontrerete perplessità, dubbi, poche certezze, ma non poche ipotesi persuasive. Rubo le parole a Gillo Dorfles, forse l’unica vera utopia possibile sta nell’architettura.
La parola utopia è inflazionata?
LM: È da molto tempo che la parola utopia mi affascina. Mi incuriosisce il valore che nel tempo le è stato affidato. Mi piacciono le varie applicazioni. Questo libro apre tante porte e fa vedere orizzonti diversi per i tanti contenuti e per approcci diversi. Quello che non abbiamo fatto (è stata una scelta) è stato parlare dell’uso del termine utopia nel linguaggio comune. Quello dei politici o più generamente della informazione buona o becera che dir si voglia. Fateci caso. Ormai sempre più spesso la parola viene usata senza soffermarsi sul suo significato. Politici, giornalisti, modelle, stilisti, etc. Che sia diventata di moda? Oddio spero davvero ce non sia così,ma tant’è!