Mermaid

Il mito eterno delle sirene – Intervista a Emanuele Coco

Abbiamo fatto tre domande a Emanuele Coco, autore per noi di Il circo elettrico delle sirene.

 

Autopsia sirena

 

 

L’io narrante del suo libro attraversa il mito delle Sirene muovendosi tra antichità, Medioevo e l’Ottocento dei falsari e del circo Barnum. E il Novecento? Non ci sono state nel XX secolo riletture e interpretazioni del mito delle sirene?

Certo che sì. Ci sono state e nel libro emergono nell’ultimo capitolo. Quello delle Sirene è un mito eterno. Come ogni mito rappresentativo della condizione umana non invecchia mai. Nel corso del Novecento si può assistere a una interpretazione per così dire psicanalitica delle Sirene. Scopriamo che esse non si trovano all’esterno, bensì dentro di noi. Non sono tentatrici in costume che fanno il bagno in attesa dei malcapitati. Sono voci del nostro Io profondo: i nostri sogni, le nostre illusioni. Del resto, così forse le pensavano già gli antichi o i mistici medievali. Tuttavia, la posizione di fondo del libro è che le Sirene, queste voci così seduttive che si rivolgono al nostro cuore, non siano solo foriere di sventura e desolazione. Omero parla di un “prato fiorito” che si rivela poi una desolata riva di scheletri umani marcenti. Isidoro di Siviglia le identifica con i pericoli dell’amore: il mistico è tentato, l’innamorato rischia la delusione. Dirà perciò “le Sirene hanno le ali e gli artigli perché l’amore si dilegua e ferisce”. Si riferisce evidentemente alle Sirene classiche, quelle rappresentate come uccelli. Queste Sirene accompagnano una parte del libro. In certi casi hanno risvolti drammatici, come l’eterna condanna del femmineo. In altri casi, risvolti persino comici: l’innamorato medievale che teme di far cilecca e non sa cosa fare di fronte a una dama-Sirena che sembra tenere contemporaneamente due pesci. Tuttavia, le Sirene più interessanti, quelle che legano  maggiormente i due protagonisti del libro, sono le Sirene interiori: i nostri sogni nel cassetto. Tutti noi abbiamo desideri reconditi che quasi non osiamo confessare. Quei desideri sono Sirene. Seguirli sembra contro ogni buon senso. E forse lo è davvero. Fuggirli tuttavia potrebbe essere un delitto. Poiché la natura “ambivalente” delle nostre Sirene è l’unica in grado di cambiare il corso dei nostri giorni, il modo con cui vediamo noi stessi e le nostre possibilità. Non a caso Joyce, nelle pagine del suo celebre romanzo, quando deciderà di stravolgere le pagine del suo libro regalandoci quell’opera geniale che è l’Ulysses, lo farà proprio in compagnia di due Sirene, le bar-maids, immerso in una ondeggiante musica liberatrice.

 

Chi è Elena? E chi è l’io narrante?

Elena è la protagonista femminile del libro. Il mio è anche un libro dalla parte delle donne. Elena, in tal senso, rappresenta un modo di vedere la donna tutto maschile. Mi riferisco all’Elena del mito, quella della cultura classica. Confusa dalla bellezza di Paride abbandona il letto coniugale. Per questo è condannata e finisce col provare un senso di colpa commovente e forse ingiusto. Ha mancato di aidos – il pudore, la riverenza – qualità che secondo Aristotele non è spontanea nelle persone ma va appresa. Si sente allora una “cagna” (kyon). Ripensando alla sua infedeltà maledice se stessa e la sua “faccia di cagna” (kynopis). I greci consideravano infatti il cane come simbolo del tradimento: sembra un amico, ma poi è pronto a giocare col primo che passa. Elena vuole allora morire e invoca le Sirene per aiutarla in questo suo intento. E a partire da questa vicenda che il racconto prende le mosse. O meglio, prende le mosse un po’ prima, dal momento in cui l’io narrante del libro guarda con ironia ai pretendenti di Elena. Lui dice: “Si susseguono agitati pretendenti che vorrebbero baciarla, amarla, sposarla. Lei deve districarsi come può. Impara a scansare con gentilezza il via vai di occhi che palpitano desiderio e ardore, uomini di ogni età che le fanno la corte con modi mai giusti, sempre più presi dalla vanità di averla che da vero amore. Ci sono i melensi, i mielosi, i bamboccioni, i presuntuosi, gli smilzi, i ciccioni, e poi i vecchi, i vanitosi, i bravi ragazzi, gli impacciati… Che fatica!”. Ben presto, però, anche lui si innamora di Elena. E spera allora di poterla incontrare, di poterla dissuadere dalla sua intenzione di morire. Da qui iniziano le avventure e gli incontri di Sirene per i due protagonisti – Elena e l’io narrante – e alla fine credo entrambi scopriranno qualcosa d’importante.

 

Nel suo “circo elettrico” il lettore si trova di fronte un felice dialogo tra riflessione saggistica e suggestioni narrative e letterarie, un approccio alla scrittura che si inserisce in un filone che ha illustri predecessori. Ci vuole dire quali sono state le sue influenze, e qual è secondo lei il futuro di questo melange?

Ho sperimentato in altre occasioni questa interazione tra linguaggi. Incontrando il racconto, il saggio mette in dialogo contenuti “razionali”, che possiamo assumere come “oggettivi”, con la parte “soggettiva” di noi, quella legata alle nostre “emozioni”. Quando il racconto si interessa al mondo delle “idee” e non solo a quello delle “vicende”, credo finisca col dire qualcosa in più. Non racconta solo ciò che accade ai protagonisti. Rende anche omaggio, o insomma si avvale di tutta la tradizione di studi e riflessioni del passato. Questa tradizione è un teatro meraviglioso e incantevole poiché sa dirci molto sulla nostra esistenza, sul senso delle nostre passioni.

La scelta tuttavia non è militante. Leggo spesso saggi rigorosi che giustamente mai concederebbero nulla all’arbitrarietà del racconto. La mia è una scelta direi estetica. Mi piacciono non solo le idee in quanto tali, ma il punto di vista soggettivo di chi le racconta. Vedo esempi di questo genere letterario nell’Eating animals di Jonathan Safran Foer, in certi libri di David Foster Wallace, in Calvino ovviamente, giusto per citarne qualcuno. Non vorrei dimenticare Leonardo Sciascia però. La scomparsa di Majorana o Dalle parti degli infedeli o ancora Per un ritratto dello scrittore da giovane sono testi che compiono lo stesso tipo di commistione nei confronti della storiografia. C’è da dire che i grandi scienziati del passato si davano a volte a sperimentazioni del genere. Per esempio nei diari e nei resoconti di viaggio.

Il grande Jorge Luis Borges è stato forse il primo a iniziarmi a questo interesse. Le sue meravigliose conferenze non sono mai delle esposizioni oggettive dei concetti. Sono invece il racconto di come il personaggio Borges vive la relazione con certe idee. Parlando del sogno, degli incubi, di Locke o della penultima confutazione del tempo, Borges non ci lascia mai con una lezione, con una pretesa di oggettività. Si limita più modestamente a raccontarci la sua esperienza al cospetto dei sogni, di Locke o del tempo. Così alla fine, più che una verità, troviamo un amico. Il che è un modo più piacevole di passare il tempo.

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