“Ascoltami attentamente: non alzare lo sguardo. Ti stanno osservando. Vedi quello sconosciuto seduto di fronte a te che sembra parlare al telefono? In realtà ti sta fotografando. E non è tutto. Durante quella colazione di lavoro della settimana scorsa, quando hai fatto quella battutaccia sul capo, un collega stava registrando tutto quello che dicevi con il suo telefono, che era appoggiato sul tavolo. Più tardi, al ristorante, mentre facevi il filo alla cameriera, qualcuno riprendeva l’intera scena“.
Così inizia l’articolo scritto dal nostro Nick Bilton (autore di Io vivo nel futuro, pubblicato da Codice nel 2011) per il New York Times e pubblicato sul numero di Internazionale appena uscito in edicola. Dobbiamo rassegnarci ad un mondo che, popolato da possessori di smartphone (sempre più smartphone, ovunque), diventa una piazza virtuale in cui chiunque ci può riprendere, fotografare, registrare, in cui le nostre mosse sono completamente spiabili e riferibili, in cui l’estraneo che c’incontra per esempio in treno può farci una foto e caricarla sul suo profilo Facebook solo perché trova carine le nostre scarpe, o sciocca la rivista che leggiamo, e deve gridarlo ai suoi contatti, dire: sto viaggiando seduto accanto a una ragazza che legge una rivista da sciocchi, non c’è davvero più religione.
Prima o poi, continua Bilton, le case produttrici saranno costrette a inventare software capaci di captare la tecnologia invasiva e di proteggerci: sensori che disattivino le fotocamere dei telefonini, collane che emanino onde in grado di rendere innocui i registratori, e così via.
Per forza, conclude: “Credo che una delle più grandi sfide del nostro tempo sia riuscire a proteggere la nostra privacy, così fondamentale per la democrazia, dalla tecnologia“.
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