Gli autori Codice edizioni al festival Terra incognita di Fidenza
Rudi Bressa, Nico Pitrelli e Mariachiara Tallacchini sono tra gli ospiti di Terra incognita, il festival culturale di Fidenza in programma dal 15 settembre al 1° ottobre.
È passato molto tempo da quando gli agricoltori hanno abbandonato le “case coloniche” di Delhi. Benché siano tuttora in uso, il loro nome adesso indica le seconde case in cui il ceto abbiente trascorre i fine settimana, luoghi di svago alla periferia della città dove stradine sterrate non presenti sulle mappe si snodano attraverso i villaggi poverissimi, per sfociare all’improvviso davanti a residenze sontuose e a giardini immensi, con tanto di fontane e giochi d’acqua; una volta mi sono ritrovato in un parco attraversato da una mini linea ferroviaria. È il quartiere degli “Hamptons” di Delhi, il cuore mondano della città, dove gli organizzatori di eventi ricreano la Notte degli Oscar, Broadway, Las Vegas e, per chi ha nostalgia di casa, perfino un paesino del Punjabi, con i camerieri avvolti nei costumi tradizionali. Una notte nebbiosa di fine 2010 ho partecipato a una di queste feste notoriamente decadenti, con i parcheggiatori che si giostravano tra Bentley nere e Porsche rosse, mentre i padroni di casa mi invitavano a provare il manzo Kobe arrivato dal Giappone, i tartufi bianchi dall’Italia, il caviale beluga dall’Azerbaijan. Era difficile parlare sovrastando il ritmo pulsante della tecno-beat, ma sono riuscito a intrattenere una conversazione con il figlio poco più che ventenne di questo demi-monde di campagna, un classico esempio del suo genere: impiegato nella società di export del padre (sembra si tratti sempre di “export”), aveva indosso una camicia nera aderente e i capelli a spazzola, fissati con il gel. Dopo aver appurato che ero un investitore di New York rientrato in patria in cerca di opportunità d’investimento, ha alzato le spalle e ha detto: «Beh, certo. Dove altro andranno i soldi?». Dove altro andranno i soldi? Ho lasciato la festa intorno a mezzanotte, ben prima che venisse servita la portata principale, ma quel commento ha continuato a ronzarmi in testa. Come investitore nei mercati emergenti avrei dovuto sentirmi lusingato; dopo tutto, le dimensioni del fondo della mia équipe sono triplicate nell’ultimo decennio, e se la tendenza si fosse protratta, cosa che il giovane viveur sembrava dare per scontata, gli investitori dei mercati emergenti sarebbero divenuti i padroni dell’universo. Invece è tornato a tormentarmi un distico Urdu: «Sono tanto sbalordito della mia prosperità che la mia felicità comincia a rendermi ansioso». Ho cominciato la mia carriera di investitore durante la metà degli anni novanta, quando la crisi colpiva uno dopo l’altro i paesi in via di sviluppo e nel mondo finanziario i mercati emergenti erano considerati problematici. Alla fine di quel decennio alcuni dei miei colleghi ribattezzarono questi asset rimasti orfani con il nome di mercati e-mergenti, con riferimento al loro tentativo di seguire la scia del boom tecnologico statunitense. Negli ambienti finanziari i mercati emergenti venivano additati come esempio dell’inversione della regola dell’80/20, secondo cui l’80 per cento del profitto si realizza con il 20 per cento dei propri clienti: per gran parte del dopoguerra i mercati emergenti hanno rappresentato l’80 per cento della popolazione mondiale, ma solo il 20 per cento della produzione economica. Negli anni sessanta e settanta, durante l’ascesa dell’America Latina, l’Africa e ampie porzioni dell’Asia versavano in una condizione di declino; quando però, negli anni ottanta e novanta, queste ultime hanno cominciato a crescere a un ritmo sostenuto, le nazioni latino-americane non sono riuscite a coordinare la loro crescita (mentre l’Africa era stata liquidata come il “continente senza speranza”). Fino al 2002 i grandi investitori – fondi pensione e donazioni alle università dal valore di miliardi di dollari – hanno ritenuto che le dimensioni dei mercati emergenti fossero troppo esigue per riuscire a fare la differenza, o che essi fossero semplicemente troppo pericolosi: paesi immensi come l’India erano considerati “il selvaggio est” degli investimenti. Solo qualche anno dopo ero lì in piedi, nel fumo e nel frastuono martellante, accanto a un ragazzo viziato che si sente sulla vetta del mondo perché suo padre è uno dei trentamila miliardari di Delhi, con patrimoni calcolati in dollari e in buona parte accumulati solo di recente; ha visto poco del mondo che si estende oltre le case coloniche isolate, eppure ne sa abbastanza da ripetere ovunque a pappagallo quella che è l’opinione generale sui mercati emergenti: «Dove altro andranno i soldi?”. Dalla sua aveva i dati sulle tendenze più recenti: l’afflusso di capitale privato nei paesi in via di sviluppo è passato dai 200 miliardi di dollari l’anno nel 2000 a quasi un trilione di dollari annui nel 2010. Anche a Wall Street tutti gli esperti erano concordi nell’affermare che l’Occidente fosse in totale declino, e che quindi i capitali dovessero necessariamente imboccare la strada verso est e verso sud. Ho pensato anche a quanto questo netto cambiamento di opinione stesse influenzando l’atteggiamento dei politici e degli imprenditori nei paesi emergenti. Quando sono andato in Egitto, quasi dieci anni fa, ero stato trattato come un ospite di riguardo del primo ministro Ahmed Nazif, che aveva invitato decine di fotografi per una sessione fotografica di dieci minuti, e che poi aveva sfruttato la mia faccia sulle pagine dei giornali finanziari per dimostrare che gli investitori stranieri iniziavano a interessarsi al suo paese (faccio un salto in avanti: nell’ottobre 2010, a Mosca, avevo tenuto una presentazione per il primo ministro russo Vladimir Putin, in cui non mi ero espresso in termini propriamente entusiastici sul futuro del suo paese. Alcuni media locali reagirono con sarcasmo, dicendo che la Russia poteva fare a meno dei capitali del mio fondo). Intorno alla metà dell’ultimo decennio sembrava che chiunque fosse in grado di raccogliere capitali per i mercati emergenti, perfino un incapace; mentre, alla fine del decennio, sembrava che solo a un incapace sarebbe mai venuto in mente di farlo. La storia infatti ci insegna che lo sviluppo economico funziona come una partita a scale e serpenti: non c’è un percorso rettilineo verso la vetta e ci sono più serpenti che scale; vale a dire che è più facile cadere che salire. Una nazione può salire scale per uno, due o tre decenni, ma poi finire su un serpente e tornare al punto di partenza, dove magari tutto ricomincia all’infinito, mentre intanto le avversarie la superano. È insomma più frequente tornare indietro che arrivare in vetta, i competitor non mancano e solo poche nazioni riescono a smentire le previsioni. Si tratta delle rare nazioni “in fuga”, che si aggiudicano la partita perché crescono più rapidamente degli avversari che appartengono alla loro stessa categoria di reddito: dunque, una nazione con un reddito pro capite al di sotto dei 5000 dollari compete con le rivali dello stesso segmento. Il gioco della crescita sta tutto nel battere le aspettative, e i propri pari. La sensazione che crescere sia improvvisamente diventato un gioco facile (dal quale ognuno può uscire vincitore) nasce dai risultati eccezionali degli ultimi dieci anni, durante i quali, di fatto, tutti i mercati emergenti sono cresciuti all’unisono. Ma quella è stata la prima volta – e con tutta probabilità l’ultima – che si è assistito a un’epoca d’oro: nel prossimo decennio difficilmente vivremo qualcosa di analogo. Negli ultimi quindici anni ho trascorso una settimana al mese in un luogo il cui mercato fosse considerato emergente, attraversandolo in lungo e in largo, per lo più in auto, incontrando persone di tutti i tipi e calandomi in quella realtà. Come afferma lo scrittore Aldous Huxley: «Viaggiare è scoprire di avere un’idea sbagliata degli altri paesi». Stando in ufficio a leggere fogli excel non si riesce a capire, per esempio, se un certo regime politico percepisca o meno il nesso che intercorre tra buona economia e buona politica. Nessuno è in grado di stabilire con esattezza le ragioni per cui le nazioni crescano o non riescano a crescere. Non esiste una formula magica, ma solo un elenco di ingredienti ben noti: permettere la circolazione di merci, capitali e persone propria del libero mercato, favorire il risparmio e controllare che le banche facciano confluire il denaro in investimenti produttivi; imporre l’autorità della legge e tutelare i diritti di proprietà; stabilizzare le economie con un bilancio e un deficit della bilancia commerciale modesti; tenere sotto controllo l’inflazione; aprire le porte al capitale straniero soprattutto quando porta in dote la tecnologia; costruire strade e scuole migliori; assicurare sostentamento ai bambini, e così via. Queste sono considerazioni meramente astratte, cliché che offrono un lungo elenco di comportamenti possibili, ma non un reale approfondimento circa il modo in cui questi fattori a un certo punto si combinano, generando la crescita in un dato paese in un dato periodo.
Ruchir Sharma, Nazioni in fuga (per continuare a leggere l’estratto – che comprende prefazione e primo capitolo-, clicca QUI).
Cina, India, Brasile, Russia: se ci venisse chiesto di scommettere sui mercati del futuro molto probabilmente sarebbero questi i paesi su cui punteremmo. Ma per Ruchir Sharma, esperto di economie emergenti e manager della Morgan Stanley, il destino del mondo è molto meno scontato di quanto si possa credere: sono altre le nazioni di cui sentiremo parlare. Secondo le sue previsioni i nuovi miracoli economici emergeranno da zone apparentemente marginali, che si stanno preparando a decollare. E qualche sorpresa arriverà anche dal centro di quello che ormai è considerato il cuore malato del sistema capitalistico. Nazioni in fuga è una guida indispensabile per capire dove stanno andando l’economia globale e gli equilibri geopolitici del mondo che verrà.
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