Steven Johnson - Un futuro perfetto

Il progresso, in verità – Un estratto da Un futuro perfetto di Steven Johnson

«Gli incidenti aerei appartengono a quella ristretta categoria di eventi cui è garantita la prima pagina di tutti i giornali nazionali. É ben più raro, invece, che venga data la stessa rilevanza a notizie di incidenti aerei che non si sono verificati. Tuttavia, a volte accade che uno di questi non-eventi riesca a balzare agli onori della cronaca. Il 12 gennaio 2009 sulla prima pagina di “USA Today” comparve un articolo improbabile intitolato Airlines Go Two Years with No Fatalities (Due anni senza incidenti per le compagnie aeree). Un’indagine condotta dal giornale rivelava che l’industria aeronautica commerciale statunitense aveva raggiunto un traguardo senza precedenti nella storia delle compagnie aeree moderne: nonostante l’enorme incremento del numero di voli rispetto ai decenni precedenti, gli anni 2007 e 2008 non facevano registrare neanche una vittima causata da incidenti aerei.
Dal punto di vista statistico, due anni consecutivi con zero vittime rappresentavano un traguardo notevole. Dal 1958, solo quattro volte era trascorso un anno intero senza incidenti mortali. Ma questo record di sicurezza rientrava in una tendenza a lungo termine. Dalla tragedia dell’11 settembre, le probabilità di perdere la vita su un volo di linea sono diciannove su un miliardo, con un miglioramento di quasi il 100 per cento rispetto alle statistiche (già molto positive) riguardanti i voli degli anni novanta. Secondo il professor Arnold Barnett del MIT, questo significa che per un bambino americano le probabilità di essere eletto presidente degli Stati Uniti nel corso della sua vita sono maggiori rispetto a quelle di morire in un incidente aereo.
La notizia aveva attirato la mia attenzione anche perché da tempo sostenevo che le agenzie di stampa fossero solite presentare gli eventi d’attualità in modo fuorviante e parziale, e non mi riferivo alla solita faziosità tipica delle cronache politiche, ma alla più sottile tendenza a preferire le brutte notizie. “If it bleeds, it leads” (Se c’è sangue, fa notizia) può essere una buona strategia per vendere più giornali, ma è anche un modo per manomettere la percezione collettiva dei successi della nostra società. Sentiamo di ogni genere di catastrofi o minacce, ma le storie di autentico progresso sono relegate nelle ultime pagine, quando trovano spazio.
L’articolo di “USA Today”, invece, andava contro tale tendenza alla negatività. Così, ispirato da quella rinfrancante storia di progresso, decisi di scrivere un post per un sito web con cui proprio in quei giorni stavo collaborando. Riepilogai le conclusioni dell’articolo di “USA Today”, e feci notare che se i mezzi di comunicazione riportassero più spesso quei risultati straordinari, meno persone avrebbero paura di volare, e quindi guiderebbero di meno sulle ben più pericolose autostrade.
Una persona superstiziosa avrebbe potuto temere che un’esternazione pubblica di quel genere potesse allettare il destino. In effetti, sono stato accusato spesso di imprudenza da parte di alcuni amici con cui mi è capitato di parlare di sicurezza dei voli di linea, ma ho sempre liquidato le critiche con una risata. Di sicuro, il destino aveva ben altro da fare che preoccuparsi dei miei argomenti.
Ad ogni modo, poche ore dopo la pubblicazione del mio pezzo sulla sicurezza dei voli, mentre ero in uno studio televisivo per un’intervista, cominciai a ricevere una serie di e-mail e SMS sul cellulare da parte di amici che l’avevano letto. Un jet di US Airways aveva compiuto un ammaraggio sulle acque ghiacciate del fiume Hudson, e gli amici mi dicevano: «Guarda cos’hai combinato!». Avevo sfidato la sorte, e la sorte mi aveva preso a sberle.
Tempo di trovare un televisore per vedere le immagini in diretta, era ormai evidente che l’aereo aveva resistito all’ammaraggio riportando solo danni minimi alla struttura, e molti passeggeri erano in piedi sulle ali del velivolo in attesa dei soccorsi. Al che buttai giù un secondo, breve post in cui promettevo di astenermi per un po’ dal commentare la sicurezza dei voli, e decisi anche di mettere in stand-by un altro pezzo che stavo scrivendo, in cui raccontavo dell’incredibile fortuna che aveva avuto il nostro pianeta nell’evitare collisioni con asteroidi capaci di provocare estinzioni di massa.
Poi accadde qualcosa di buffo e di meraviglioso. Presto il mondo seppe che tutti i centocinquantacinque passeggeri e membri dell’equipaggio a bordo del volo US Airways 1549 erano sopravvissuti, e pochissimi erano i feriti gravi. Quel volo, che doveva rappresentare lo sferzante rimprovero al mio ottimismo riguardo ai viaggi in aereo, fu invece di grande sostegno alle mie argomentazioni. Volendo credere a quel genere di cose, potremmo dire che avevo sfidato la sorte, e che questa aveva chiuso un occhio.
Naturalmente, non avevo niente a che fare con la lieta conclusione dell’ammaraggio. Piuttosto, chi o che cosa era responsabile del fatto che quell’aereo aveva perso due motori durante il decollo e tuttavia era riuscito a mantenere in sicurezza i passeggeri? I media proposero subito due tipi di spiegazione, ciascuna delle quali rispecchiava le tipiche interpretazioni delle buone notizie. Prima di tutto c’era il racconto eroico: il capitano Chesley “Sully” Sullenberger aveva pilotato il suo aeroplano sulle acque del fiume in modo brillante, dimostrando grande padronanza di sé in una situazione di notevole difficoltà. Poi c’era la retorica della “magia” legata all’evento, il Miracolo sul fiume Hudson. Queste erano le due versioni prevalenti: il fatto che l’aereo galleggiasse al sicuro sull’acqua poteva essere spiegato solo chiamando in causa supereroi o miracoli.
Nessuno può negare che quel giorno Sullenberger abbia compiuto una bella impresa, ma il fatto è che il pilota ha goduto del supporto di una lunga storia di decisioni prese da migliaia di persone nei decenni precedenti, decisioni che hanno creato le condizioni per rendere possibile l’atterraggio perfetto di Sullenberger. In quella situazione un pilota meno abile avrebbe potuto fallire e provocare una catastrofe, ma per quanto in gamba sia stato Sullenberger, non ha agito da solo. La sopravvivenza delle centocinquantacinque persone a bordo dell’aereo può suscitare sorpresa ed emozione, ma in quell’evento non c’è stato niente di miracoloso. L’aereo ha evitato lo schianto grazie a una fitta rete di intelligenze umane che è stata capace di progettare e costruire un velivolo in grado di sopportare proprio quel tipo di imprevisti. Certo, è stato un trionfo individuale, ma anche, ed è importante riconoscerlo, un trionfo delle idee condivise dalla collettività, dell’innovazione tecnologica, della ricerca finanziata dallo Stato e delle regolamentazioni governative. Ignorare questi aspetti quando si racconta il Miracolo sul fiume Hudson non vuol dire trascurare parte della storia a beneficio dell’effetto drammatico, significa non comprendere appieno da dove abbia origine il progresso e come sia possibile produrne altro.
Qualunque tentativo di spiegare la serie di eventi che ha permesso al volo 1549 di ammarare in sicurezza sull’Hudson deve partire da una macchina: il cannone sparapolli.
La minaccia per gli aerei rappresentata dallo scontro con gli uccelli risale alle origini del volo. Collisioni di questo genere sono state registrate nei primi anni del novecento dai fratelli Wright sui diari dei loro voli sperimentali. Il momento di maggiore vulnerabilità dei moderni jet di linea è quando gli uccelli vengono inghiottiti dai motori, che si danneggiano a causa dell’urto. Ma ci sono diversi tipi di guasti. Un motore può semplicemente perdere potenza fino a smettere di funzionare. Oppure può andare in pezzi, scagliando frammenti verso la fusoliera, cosa che può distruggere l’aeroplano in pochi secondi. La prima eventualità è ovviamente di gran lunga preferibile alla seconda. Di solito la collisione con gli uccelli interessa un solo motore, quindi l’aereo può continuare a volare sfruttando gli altri motori, se la struttura non ha risentito di ulteriori danni.
Gli attuali motori dei jet vengono quindi sottoposti a test rigorosi per verificare che siano in grado di resistere agli scontri con gli uccelli senza subire danni gravi. Alla base militare Arnold, nel Tennessee, un team di scienziati e ingegneri utilizza gas elio ad alta pressione per lanciare carcasse di polli a forte velocità contro i motori accesi degli aerei. Negli Stati Uniti, ogni modello installato su un velivolo commerciale ha superato il test del cannone sparapolli.
Occorre osservare che questo cannone rappresenta un caso esemplare di regolamentazione governativa, e quegli animali morti vengono sparati attraverso un cannone pneumatico grazie ai soldi dei contribuenti americani. Per i passeggeri del volo US Airways 1549 quei dollari di tasse non potevano essere spesi meglio. Infatti il primo colpo di fortuna che l’aereo ha avuto, dopo che uno stormo di oche canadesi si è scontrato con entrambi i motori, è stato quello di conservarli integri tutti e due: infatti non hanno preso fuoco, né hanno scagliato frammenti di titanio contro la fusoliera.
L’espressione “colpo di fortuna”, come l’interpretazione del Miracolo sul fiume Hudson, distoglie l’attenzione dalle reali circostanze che hanno caratterizzato l’ammaraggio dell’aereo. Ci vorrebbe un’espressione migliore, qualcosa che trasmetta l’idea di un evento che sembra fortunato, ma che in realtà è il risultato di anni di preparazione e pianificazione. Non si è affatto trattato di un colpo di fortuna, ma di un colpo di lungimiranza.
L’attività di collaudo con il cannone sparapolli, infatti, è stata così efficace che il nucleo del motore sinistro ha continuato a turbinare a una velocità quasi massima, insufficiente a garantire a Sullenberger la spinta di cui avrebbe avuto bisogno per ritornare all’aeroporto LaGuardia, ma utile per mantenere in funzione i sistemi elettronici e idraulici dell’aereo per tutta la durata del volo. La continuità del sistema elettronico, a sua volta, ha determinato il secondo colpo di lungimiranza del volo 1549: il leggendario sistema di controllo computerizzato fly-by-wire (letteralmente, “volo tramite cavi elettrici”) dell’aereo è rimasto attivo per tutto il tempo in cui Sullenberger ha condotto il velivolo danneggiato verso il fiume.
Il fly-by-wire risale al 1972, quando un F-8 Crusader modificato decollò dal Dryden Flight Research Center, al confine del deserto del Mojave. Frutto della mente degli ingegneri della NASA, il sistema fly-by-wire utilizzava computer digitali e altri moderni sistemi elettronici per trasmettere informazioni di controllo dal pilota all’aereo. Con i computer era possibile fornire al pilota un’assistenza in tempo reale, anche con il pilota automatico disattivato, prevenendo gli stalli o stabilizzando l’aereo in caso di turbolenza. Basandosi sul modello della NASA, nei primi anni ottanta gli ingegneri di Airbus svilupparono un sistema fly- by-wire straordinariamente innovativo per l’Airbus A320, che iniziò a volare nel 1987.
Ventuno anni dopo, quando è entrato in collisione con uno stormo di oche canadesi, Chesley Sullenberger era ai comandi proprio di un A320. Poiché il motore sinistro era ancora in grado di tenere in funzione le apparecchiature elettroniche, la coraggiosa discesa del capitano sulle acque dell’Hudson fu abilmente assistita da un partner silenzioso, un computer che rappresentava l’intelligenza collettiva maturata dopo anni di ricerca e progettazione. William Langewiesche descrive questo strumento digitale nel suo Fly by Wire:

 

Durante l’iniziale virata a sinistra [Sullenberger] abbassò il muso dell’aereo […] e raggiunse la migliore velocità di planata, un valore che l’aereo calcolò da sé e presentò al pilota sotto forma di punto verde sulla scala delle velocità visualizzata sullo schermo primario di navigazione. Durante le variazioni di inclinazione effettuate per raggiungere quella velocità, una freccia gialla di “orientamento” apparve sulla scala, puntando verso l’alto o verso il basso rispetto alla velocità attuale per fornire previsioni relative ai prossimi dieci secondi: indicazioni di enorme utilità per raggiungere il punto verde e ridurre al minimo le oscillazioni. […] Ogni volta che il pilota rilasciava la leva di controllo laterale, l’aereo manteneva il muso stabile rispettando qualunque valore di inclinazione selezionato in precedenza; l’assetto in volo del velivolo era automatico e perfetto in ogni momento.

 

La maggior parte dei non addetti ai lavori pensa che i moderni aeroplani dispongano di due modalità di volo: “pilota automatico”, durante la quale l’aereo è di fatto in mano ai computer, e “manuale”, con cui il controllo è esercitato totalmente dal pilota. Ma il sistema fly-by-wire è un’innovazione più complessa. Sullenberger era al comando dell’aeromobile mentre lo manovrava verso il fiume Hudson, ma il sistema fly-by-wire lavorava silenziosamente al suo fianco per tutto il tempo delle operazioni, definendo i limiti e gli obiettivi ottimali per le azioni del capitano. Lo straordinario ammaraggio è stato il risultato di uno speciale duetto tra un singolo essere umano ai comandi dell’aereo e le competenze integrate di migliaia di esseri umani che negli anni hanno collaborato per realizzare la tecnologia fly-by-wire installata sull’Airbus A320.

Sullenberger sarebbe stato in grado di condurre l’aereo al sicuro anche senza quella tecnologia? Fortunatamente per i passeggeri del volo 1549, quel giorno non fu necessario trovare una risposta a questa domanda.
La reazione popolare al Miracolo sul fiume Hudson racchiude in sé quanto vi è di sbagliato nel modo in cui pensiamo al progresso nella nostra società. In primo luogo, l’anomalia di un atterraggio d’emergenza, fatale o no, ottiene molta più risonanza dei miglioramenti registrati nel lungo termine in fatto di sicurezza, che in definitiva sono molto più importanti. Se uno è in cerca di una notizia-gancio in grado di catturare l’attenzione del pubblico, il progresso e le sue conquiste risultano meno attraenti degli eventi drammatici e delle catastrofi spettacolari. Per ragioni che sarebbe interessante indagare, il progresso fa meno notizia dei sempre più frequenti esempi di declino inarrestabile. Si può guadagnare attenzione dichiarandosi utopisti, o rammaricandosi per la piega negativa che hanno preso alcune questioni sociali, anche se questa tendenza non è così evidente. Ma non si conquistano le prime pagine dei giornali dichiarando che le cose vanno un po’ meglio di un anno fa, sebbene il miglioramento duri da anni, almeno dagli albori della rivoluzione industriale.
Consideriamo questa riflessione di Peter Thiel, imprenditore e investitore, pubblicata su “National Review”:

 

In confronto alle speranze indubbiamente nobili degli anni cinquanta e sessanta, il progresso tecnologico appare inferiore alle aspettative in molti campi. Consideriamo il significato più letterale del termine non-accelerazione: “non ci muoviamo più a velocità crescente”. La velocità dei nostri spostamenti ha conosciuto un’accelerazione che è durata per secoli, dai vascelli sempre più veloci che si sono succeduti dal sedicesimo al diciottesimo secolo, fino all’avvento dei trasporti ferroviari nel diciannovesimo secolo, nonché delle auto e degli aeroplani nel ventesimo. Questa tendenza ha subito un’inversione nel 2003, dopo che il Concorde è stato ritirato dal servizio, senza contare i ritardi provocati dai sistemi di sicurezza incredibilmente arretrati degli aeroporti dopo l’11 settembre 2001. I fautori dei viaggi spaziali, del turismo sulla Luna e dell’esplorazione del sistema solare da parte dell’uomo sembrano quindi provenire da un altro pianeta. Una copia sbiadita della rivista “Popular Science” del 1964, la cui storia di copertina era intitolata Who’ll Fly You at 2,000 m.p.h.? (Chi vi farà volare a duemila miglia all’ora?), riesce a malapena a rievocare i sogni di un’epoca passata.

 

Tuttavia, la pura e semplice velocità di crociera è solo uno dei modi in cui è possibile misurare il progresso nel campo dei trasporti, sebbene si tratti del parametro di maggiore richiamo, quello che è rimbalzato sui titoli dei giornali quando, per esempio, i primi jet commerciali solcarono i cieli o il Concorde infranse la barriera del suono. Ma concentrarsi esclusivamente sulla velocità significa soffocare la nostra capacità di misurare in senso più ampio il progresso dell’aviazione moderna.
Probabilmente, la maggior parte dei passeggeri giudica più importante la sicurezza rispetto alla velocità, specie quando si è già in grado di viaggiare a quasi mille chilometri all’ora. In effetti, la sicurezza dei voli ha compiuto passi da gigante. Un piccolo aneddoto storico può essere illuminante in proposito.
Nel 1964 in molti aeroporti, a poca distanza dall’edicola con quella copia di “Popular Science”, si poteva trovare un negozietto in cui era possibile fare un ultimo acquisto prima di imbarcarsi: un’assicurazione sulla vita. Non era granché incoraggiante, ma i timori in quel senso erano appropriati, perché all’epoca le probabilità di morire in un incidente aereo erano circa una su un milione. Oggi invece i voli sono cento volte più sicuri. Se la velocità dei jet fosse aumentata della stessa misura, basterebbero cinque minuti per volare da Parigi a Londra.

Anche se la velocità dei velivoli commerciali si è stabilizzata negli ultimi quarant’anni, i tempi medi di un volo sono diminuiti, poiché oggi è molto più semplice volare verso mercati di media grandezza. Questo è dovuto alla crescita dell’industria globale del settore, nonché al moderno sistema di hub e a una rete flessibile di grandi jet e aerei regionali più piccoli in grado di trasportare passeggeri nei nodi meno popolati.
Un volo da New York a Los Angeles nel 1970 durava all’incirca lo stesso tempo del corrispettivo odierno, ma in quegli anni partire da New York per raggiungere una località più sperduta, per esempio Jackson Hole, nel Wyoming, significava viaggiare per giorni anziché per ore come oggi. Non sono i motori a essere più veloci, ma l’intero sistema di trasporti. Anche questo è progresso. Poi ci sono i prezzi. Il viaggio di andata e ritorno da New York a Los Angeles costava intorno ai tremila dollari in classe turistica, considerando gli aggiustamenti dovuti all’inflazione. Oggi si può trovare un volo per la stessa tratta a cinquecento dollari, e sull’aereo è possibile guardare programmi televisivi in diretta via satellite o controllare la posta elettronica.
Sì, Thiel ha ragione quando afferma che gli aerei non sono in grado di volare più velocemente di quarant’anni fa. Pertanto, in base a questo parametro il progresso ha di fatto raggiunto una fase di stallo (o ha addirittura compiuto alcuni passi indietro, se pensiamo al Concorde), ma quasi tutti gli altri aspetti importanti dell’esperienza volo suggeriscono il contrario (a parte la gioia di sottoporsi ai controlli di sicurezza aeroportuali). Questo straordinario primato del progresso non deriva da un particolare dispositivo che ha determinato una svolta tecnologica, né dalla mente visionaria di un singolo inventore. Non assume la forma di un grande balzo in avanti. I cambiamenti nascono da decenni di piccole decisioni prese da migliaia di persone e organizzazioni, alcune del settore pubblico altre di quello privato.

Tutti hanno apportato ritocchi al sistema in modo accorto e competente esplorando nuove strade, sperimentando nuove configurazioni di prezzi o lanciando carcasse di polli nei motori degli aerei. Le singole modifiche sono state applicate gradualmente, ma con il tempo hanno prodotto miglioramenti di notevole importanza. Eppure, proprio perché lente e graduali, tali modifiche sono rimaste perlopiù invisibili e anonime.
Se la storia dell’aviazione moderna non basta a convincervi che il nostro giudizio sul progresso è influenzato negativamente dai media, consideriamo l’andamento dei seguenti indici di valutazione della condizione sociale negli ultimi vent’anni in America: abbandono scolastico in età liceale, iscrizioni all’università, criminalità giovanile, guida in stato di ebbrezza, decessi per incidenti stradali, mortalità infantile, aspettativa di vita, consumo di carburante pro capite, infortuni sul lavoro, inquinamento atmosferico, divorzi, parità retributiva fra i due sessi, donazioni in beneficenza, affluenza alle urne, prodotto interno lordo pro capite e gravidanze in età adolescenziale.
Per tutti la risposta è sempre la stessa: l’andamento è positivo. I progressi non sono evidenti come quelli registrati nella storia della sicurezza aerea nell’arco dello stesso periodo, ma quasi tutti gli indici di prosperità sociale sono migliorati di oltre il 20 per cento negli ultimi vent’anni. A questo si aggiunga la miriade di piccoli prodigi della medicina moderna – dagli antidepressivi alle pompe di insulina, fino al by-pass quadruplo – che hanno migliorato la qualità della nostra vita e ci hanno resi più longevi. Per non parlare dell’armamentario di congegni per l’intrattenimento e le comunicazioni, i cui prezzi negli ultimi vent’anni sono crollati. I cittadini americani godono di una vita più lunga e più sana, vissuta in famiglie e comunità più stabili rispetto a quelle di vent’anni fa e circondati da un assortimento di tecnologie per il divertimento e il risparmio della fatica che cento anni fa non si potevano trovare nemmeno in un palazzo reale. Ma a parte la criminalità e i gadget tecnologici, raramente questi argomenti vengono discussi e condivisi attraverso i canali del passaparola. Molti americani, per esempio, sono convinti che la metà di tutti i matrimoni finisca con il divorzio, sebbene questo non corrisponda più alla realtà fin dai primi anni ottanta, quando il picco dei divorzi superò di poco il 50 per cento e poi è diminuito di circa un terzo.
Questa non è soltanto la storia dei successi nei paesi industrialmente avanzati. I miglioramenti della qualità della vita e della salute pubblica nei paesi in via di sviluppo sono ancora più radicali. Sebbene negli ultimi cinquant’anni la popolazione del pianeta sia raddoppiata, nello stesso periodo la percentuale di quanti vivono in condizioni di povertà si è dimezzata. I tassi di mortalità infantile e di aspettativa di vita nell’America Latina sono migliorati di oltre il 40 per cento dai primi anni novanta. E in nessun altro paese il tenore di vita medio è aumentato più velocemente di quanto sia successo in Cina negli ultimi vent’anni.
Naturalmente, non tutti gli indicatori evidenziano un miglioramento, specie negli ultimi anni. Gli americani che vivono in condizioni di povertà sono aumentati nell’ultimo decennio, dopo che per un lungo periodo erano diminuiti costantemente. La disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è tornata ai livelli dei ruggenti anni venti. All’inizio del 2012, mentre scrivo queste pagine, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è ancora al di sopra dell’8 per cento, cioè maggiore di quello registrato in media negli ultimi vent’anni. In questo stesso periodo il debito delle famiglie è salito alle stelle, sebbene in questi ultimi anni sia leggermente calato a causa della stretta del credito. Sebbene la maggior parte degli americani goda di una salute decisamente migliore rispetto alla generazione precedente, l’obesità infantile si è imposta come un problema significativo, specie all’interno delle comunità a più basso reddito.
Un interessante spartiacque separa questi due andamenti generali. Da una parte, una serie di tendenze sociali che dipendono pesantemente da forze che non sono legate al mercato. Il progresso raggiunto nella prevenzione della guida in stato di ebbrezza, delle gravidanze in età adolescenziale o della criminalità giovanile non deriva dall’immissione sul mercato di nuovi dispositivi, né dall’avviamento di nuove imprese nella Silicon Valley o dall’iniziativa di grandi aziende. Questo risultato si deve, invece, a una rete di forze che operano soprattutto al di fuori del mercato: l’intervento del governo, le campagne pubblicitarie di servizio pubblico, i cambiamenti demografici, il buon senso applicato alle esperienze di vita trasmesso da una generazione all’altra. Per esempio, il capitalismo non ha ridotto il numero dei fumatori tra gli adolescenti; anzi, alcune aziende hanno fatto di tutto perché i ragazzini continuassero a fumare. Un calo dei giovani fumatori si è ottenuto grazie ai medici, ai meccanismi di controllo, ai genitori e ad altri giovani ex fumatori che hanno condiviso informazioni di vitale importanza sui rischi per la salute legati al fumo.
I motivi per cui si sente parlare così poco di questi particolari progressi in ambito sociale sono molteplici. Prima di tutto, tendiamo a pensare che l’innovazione e il progresso debbano provenire da un contesto di mercato e non dal settore pubblico. Questa convinzione non è casuale, ma è il frutto di un’opinione pubblica largamente influenzata dagli attuali mezzi di comunicazione. Il settore pubblico non dispone di miliardi di dollari da spendere in campagne pubblicitarie per strombazzare i propri successi. Se una multinazionale inventa la formula di un detergente appena più efficace degli altri, spende una fortuna per informare il mondo che il suo prodotto è “nuovo e migliorato”. Nessuno, invece, lancia una campagna pubblicitaria nella fascia oraria di massimo ascolto per far conoscere il cannone sparapolli. Gran parte dei soldi spesi in pubblicità nel settore pubblico viene investita per le elezioni dei politici. Nessuno acquista spazi sui media per tessere le lodi dei meccanismi di controllo e dei funzionari pubblici, quindi riteniamo che questi non facciano niente di importante per noi. Il risultato è che sulle storie di progresso legate al settore pubblico cala il silenzio.
Questo silenzio, inoltre, si combina con uno scarso interesse per le storie di progresso incrementale. Quando si tratta di catturare la nostra attenzione, i bisbetici, le cassandre, gli utopisti e i cantori del declino hanno tutti vita facile rispetto a chi cerca di celebrare i miglioramenti lenti ma costanti della società. L’esempio più lampante di tutto questo risale alla seconda metà degli anni novanta, quando le tendenze economiche e sociali erano decisamente al rialzo: la Borsa impennava, ma le disuguaglianze diminuivano; la criminalità, il consumo di stupefacenti, la dipendenza dai sussidi dello Stato e i livelli di povertà erano tutti parametri orientati verso direzioni incoraggianti.
Con un democratico alla Casa Bianca sarebbe stato lecito aspettarsi editoriali pieni di orgoglio per lo stato del paese da parte di un giornale di centro-sinistra come il “Washington Post”. Ma durante il 1997, nel bel mezzo del più grande boom economico della storia degli Stati Uniti in tempi di pace, e prima che scoppiasse lo scandalo legato a Monica Lewinsky, fra tutti gli editoriali del “Post” che esprimevano un’opinione su qualche aspetto del paese, il 71 per cento si concentrava su tendenze negative, e meno del 5 per cento degli editoriali poneva l’accento su evoluzioni positive. Perfino gli anni del boom sembravano un fiasco sulle pagine del “Post”.

Nel lungo termine il pregiudizio dei media verso le storie di progresso potrebbe risultare più dannoso di qualunque faziosità politica possano manifestare. I media tendono a dare rilievo gli eventi estremi, e non mancano mai di riportare notizie e storie negative. Questo potrebbe riflettere la propensione del cervello umano a concentrarsi più sulle informazioni negative che non su quelle positive, una caratteristica ampiamente documentata dalle neuroscienze e dagli studi di psicologia.
Lo straordinario calo dei livelli di criminalità negli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni novanta sembra essere stato ignorato dal vasto pubblico, sebbene sia stata l’unica tendenza sociale positiva ad avere ricevuto una significativa copertura mediatica. Infatti il tasso di crimini violenti (numero di atti criminali ogni mille persone) è sceso dal 51 al 15 per cento tra il 1995 e il 2010: una delle più esaltanti storie di progresso sociale dei nostri tempi. Eppure, secondo una serie di sondaggi degli ultimi dieci anni, più di due terzi degli americani ritengono che la criminalità sia aumentata anno dopo anno.
Questi pregiudizi, sia che provengano dai media sia che appartengano alla psicologia umana, producono due errori fondamentali nella mente delle persone: la sottovalutazione del progresso che incalza ovunque intorno a noi, e la mancata comprensione delle vere origini di tale progresso.
Nella tradizione americana la parola progresso è stata a lungo radicata in una delle più durevoli etichette politiche della storia degli Stati Uniti. Infatti risale al movimento progressista, che raggiunse il suo apice un secolo fa con la fallita corsa alle presidenziali di Theodore Roosevelt sotto la bandiera del Partito Progressista.
Quello di Roosevelt è stato il migliore tentativo di insediamento alla Casa Bianca finora compiuto da parte di un terzo schieramento da quando il moderno sistema a due partiti si è consolidato, a metà del diciannovesimo secolo. I progressisti della prima ora si ispiravano a due correnti di sviluppo emergenti. In primo luogo condividevano una ritrovata fiducia nell’importanza della giustizia sociale per le donne e per i lavoratori più poveri, incarnata dal movimento per il suffragio universale e dal giornalismo d’inchiesta che svelava gli orrori di molti luoghi di lavoro nelle industrie dell’epoca. Inoltre condividevano la fiducia in un nuovo tipo di istituzione: il battagliero Big Government, che poteva usare il suo potere per combattere gli eccessi delle oligarchie capitalistiche spezzando i monopoli, sostenendo i sindacati, regolando le condizioni di lavoro degli operai e facendo ricorso a nuovi tipi di interventi.
Il termine progressista è tornato in voga negli ultimi vent’anni, in parte a causa di quell’opera di svilimento della parola liberal così ben riuscita alla destra politica, e in parte perché quanti si definivano progressisti sentivano la necessità di distinguersi dall’ala più moderata del Partito Democratico. Ma un aspetto curioso caratterizza la recente generazione di progressisti: non parlano granché di progresso. Se potessimo radunare nella stessa stanza gli esponenti di tutte le ideologiche politiche, probabilmente sarebbero proprio i progressisti a descrivere scenari mondiali da giorno del giudizio, chiamando in causa i cambiamenti climatici o la sovrappopolazione del pianeta. Anche gli esponenti di altre ideologie avrebbero di che lamentarsi, naturalmente: tasse troppo alte, tagli ai servizi essenziali da parte dello Stato eccetera.
Tuttavia, sarebbero quasi certamente i progressisti a dare l’impressione di pensare che la razza umana stia avanzando verso un inesorabile destino di autodistruzione.
L’ambiguità tipica dei progressisti nei confronti del progresso vero e proprio mi è sempre parsa un po’ strana. L’appellativo progressisti mi aveva attratto per la sua radice. Volevo definirmi tale poiché credo nel progresso. Ritenevo che, tutto sommato, la mia generazione se la stesse passando meglio rispetto a quella dei miei genitori, come è avvenuto per la loro rispetto a quella precedente, e pensavo che la marcia in avanti sarebbe continuata, se fossimo riusciti a giocare bene le nostre carte. Inoltre, mi piaceva parlare di progresso. Amavo ricordare alla gente tutte le cose che oggi diamo per scontate: un’aspettativa di vita doppia rispetto a un secolo fa, la possibilità di bere acqua che non ci uccide, la creazione di nuovi strumenti per la collaborazione e la partecipazione civile. Mi piaceva parlare di progresso non perché ritenevo potessimo riposare sui nostri allori, ma perché discuterne era un modo particolarmente efficace per ispirare le persone.
In generale, la vita stava migliorando e continuava così da un bel po’ di tempo, quindi perché non chiamare tutti a raccolta e immaginare nuovi modi per continuare su questa strada? Quella era la tradizione progressista a cui avrei voluto aderire: una corrente che fosse fondata su speranza e ottimismo, non perché questi fossero slogan accattivanti per una campagna politica, ma perché tutto lasciava supporre che l’ottimismo di cui si parlava fosse più che giustificato.
Scoprii di non essere solo. A un certo punto, durante i primi anni bui che seguirono l’11 settembre 2001, cominciai a rendermi conto che un gruppo variegato di persone intorno a me – scrittori, accademici, imprenditori, attivisti, programmatori e perfino politici – cominciava a parlare di progresso e cambiamenti sociali utilizzando un linguaggio comune. Tutti credevano nel progresso, ma non erano caduti nel facile equivoco che solo il settore privato ne fosse il responsabile. Inoltre credevano di avere a disposizione nuovi strumenti per provocare una nuova ondata di cambiamenti sociali positivi. Alcuni di questi strumenti avevano a che fare con la tecnologia, ma molti altri erano caratterizzati da un basso profilo tecnologico e rappresentavano modi di organizzare le risorse o di cercare soluzioni che non richiedevano l’utilizzo di un computer.

D’altra parte, per quanto riguardava la formazione e il contesto delle loro attività, quel gruppo di persone era accomunato da una certa inclinazione per la tecnologia. Molti avevano partecipato direttamente o indirettamente alla prima ondata di innovazione rappresentata dalle dot-com negli anni novanta. Per certi aspetti le loro radici tecnologiche erano comprensibili. Del resto, oggi l’unica parrocchia in cui la religione del progresso continua a regnare sovrana è senza dubbio quella della tecnologia digitale: i livelli di criminalità potrebbero anche calare del 70 per cento in meno di una generazione, ma è il lancio dell’ultimo iPad a raggiungere la copertina di “Time”. Per chi lavora nel settore hi-tech, è molto più semplice essere ottimisti riguardo al futuro.
Ma quelle radici tecnologiche sono state anche fonte di perplessità. Gli scettici ritenevano che internet venisse spacciata come la cura per ogni cosa. Furono addirittura coniate espressioni come utopisti del web per riferirsi a quelle persone secondo cui non c’erano problemi sociali, tirannie mondiali o crisi sanitarie che non potessero essere risolte a colpi di Facebook.
Senza dubbio, una parte dell’euforia legata alle promesse egualitarie di internet era esagerata, ma da semplici fautori della rete alcuni virarono davvero verso atteggiamenti di idealismo utopistico nei confronti del web.
Ad ogni modo, quelli a cui ero interessato io non erano predicatori di internet in sé. Erano persone che vedevano nella rete un modello di comportamento piuttosto che una cura universale, un modo per pensare ai problemi piuttosto che uno strumento per risolverli. Internet si poteva usare per migliorare la vita delle persone in maniera diretta, ma si potevano anche ricavare insegnamenti dal modo in cui era organizzata e applicarne i principi per perfezionare il modo di amministrare le città, o i servizi scolastici rivolti agli studenti. A volte poteva succedere che i computer fossero coinvolti in questo processo, ma il loro utilizzo non era obbligatorio.
Dopo avere speso del tempo a osservare questo movimento emergente, cominciai a rendermi conto che non era facile stabilire una corrispondenza tra i valori politici del movimento e le categorie politiche già esistenti. Le persone che più attiravano la mia attenzione mostravano diffidenza verso il controllo centralizzato, ma non erano nemmeno per il libero mercato. Credevano nel potere della competizione, ma pensavano anche che alcune delle conquiste più importanti della società non potessero essere incentivate con ricompense economiche. Si definivano imprenditori, ma lavoravano perlopiù nel settore pubblico. Diffidavano sia del grande governo sia della grande azienda privata. Da un certo punto di vista, sembravano incarnare una versione aggiornata e digitalizzata di certi anarchici del diciannovesimo secolo come Pierre-Joseph Proudhon o Michail Bakunin. Eppure, al di là di quello strano e indecifrabile eclettismo, esisteva una filosofia di fondo che pareva unificare tutti i loro sforzi, anche se non si conformava alle categorie politiche esistenti.
Da parte mia, ciò che più mi colpiva di questi nuovi attivisti e imprenditori era la loro capacità di far vibrare le mie corde più profonde quando parlavano dei loro progetti e delle loro collaborazioni, nonché della visione di progresso che emergeva dal loro lavoro. In quei discorsi riconoscevo una filosofia pratica che riecheggiava gli stessi ritornelli politici che avevo canticchiato a bassa voce nei vent’anni precedenti.
In un’epoca di grande disincanto nei confronti delle istituzioni attuali, ecco un gruppo che sapeva ispirare, anche perché aveva deciso di unirsi a un nuovo tipo di istituzione basata più su un modello di rete che su un sistema gerarchico, cioè più simile a internet che ai vecchi paradigmi del Big Capitalism o del Big Government.

Il libro che avete in mano cerca dunque di fare il punto su questa nuova visione, nonché di scoprire se si tratta davvero di una filosofia comune e originale. La maggior parte dei nuovi movimenti nasce così: centinaia o migliaia di individui e gruppi di persone che lavorano in luoghi e contesti differenti iniziano a pensare a forme di cambiamento utilizzando un linguaggio comune, senza tuttavia riconoscere la presenza di valori condivisi. Ciascuno comincia semplicemente a seguire una rotta propria, spinto magari dalla cerchia di persone a lui più vicine. Poi un giorno alza lo sguardo e si rende conto che tutte quelle traiettorie individuali confluiscono in un’unica onda».

Steven Johnson, Un futuro perfetto

 

 

Le ultime news di Codice