In ricordo di Nadine Gordimer vi regaliamo un estratto da Come leggere uno scrittore (libro che abbiamo pubblicato l’anno scorso e che raccoglie le interviste fatte da John Freeman, nel corso di anni, ad alcuni grandissimi scrittori): il capitolo dedicato all’incontro con la scrittrice, avvenuto nel maggio 2007.
«Nadine Gordimer è nata nel 1923 nei pressi di Johannesburg, da madre britannica e padre lituano di origine ebrea. Ha cominciato a pubblicare racconti nel 1951, e dopo il 1960 ha aderito al movimento sudafricano contro l’apartheid. Nelson Mandela, in carcere a Robben Island, ha letto La figlia di Burger, il romanzo scritto dalla Gordimer nel 1979; la scrittrice è stata una delle prime persone che Mandela ha invitato a fargli visita dopo la scarcerazione. Nadine Gordimer ha scritto quindici romanzi, tra cui Il conservatore (1974), vincitore del Booker Prize, oltre a pièce teatrali, saggi e racconti. Nel 1991 ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Oggi vive a Johannesburg, e lavora come “Ambasciatrice di buona volontà” per l’ONU. È stata giudice al Man Booker International Prize, occasione in cui ho avuto modo di incontrarla.
Nadine Gordimer, negli ultimi tempi, si dà alla rilettura. Dallo scorso novembre, quando l’ottantatreenne scrittrice premio Nobel ha incontrato per la prima volta Colm Tóibín ed Elaine Showalter, suoi colleghi giudici nella commissione del secondo Man Booker International Prize, ha dovuto leggersi una piccola biblioteca: le opere scritte dai quindici finalisti, scrittori che vanno da Don DeLillo e Doris Lessing a Carlos Fuentes e Alice Munro. Il vincitore sarà annunciato all’inizio del mese prossimo. «Mi sono fatta un programma di letture: ho letto i primi due libri di ciascun autore, un libro scritto a carriera più avanzata e poi il romanzo che ho ritenuto fosse il lavoro per eccellenza dello scrittore» racconta Nadine Gordimer parlando del proprio ruolo di giudice. «Poi sono arrivata alle opere più recenti. Così da rendermi conto dell’evoluzione». È stata una fatica fatta per amore, dice, che però le ha permesso di fare un’altra scoperta.
«In due casi, il libro che pensavo fosse il migliore si è rivelato ancora più eccezionale di quanto ricordassi, perché nel frattempo ero cambiata io» racconta, seduta in una camera d’albergo a New York, dove è arrivata dal Sudafrica per il PEN World Voices Festival. «Avevo vissuto» prosegue. «Avevo fatto nuove esperienze. E in quei libri c’erano cose che ora ero in grado di capire, a differenza di allora. Legga un libro ora, e lo rilegga tra vent’anni: le trasmetterà qualcosa di diverso».
Alla sua età, molti scrittori hanno smesso di scrivere, o quantomeno di ripensare ai vecchi libri. La scrittrice sudafricana, al contrario, si è testardamente rifiutata di interrompere la propria evoluzione. Nata nel 1923 a Springs, nel Transvaal, ha potuto crearsi una coscienza politica proprio grazie alla lettura. Non molto tempo dopo è stata invece la scrittura a farla entrare nell’attivismo antirazzista, e a farle vincere il Booker Prize grazie a Il conservatore, del 1974. Con la fine dell’apartheid si pensava che le sue opere avrebbero perso parte della loro vitalità. Invece, dal 1994, anno in cui in Sudafrica si sono svolte le prime libere elezioni, Nadine Gordimer ha pubblicato dieci libri, spostando lo sguardo verso i nuovi problemi della nazione: l’epidemia di AIDS, la povertà e la criminalità.
Accomodata su un divano nella sua suite, avvolta elegantemente da abiti color crema e grigio, i capelli acconciati da mani esperte, non ha proprio l’aspetto di un’artista tanto versatile. La sua postura è perfetta, l’orecchio attentissimo.
Sentendola parlare si avverte una grandissima discordanza generazionale: la dizione curata e la perfetta struttura sintattica delle frasi sono cose d’altri tempi, ma le sue preoccupazioni (le pistole, la sparatoria al Virginia Polytechnic Institute, la guerra in Iraq, i faticosi progressi del Sudafrica) non potrebbero essere più attuali.
«Graham Greene ha detto: “Ovunque tu viva, qualunque forma di violenza sia commessa in quel luogo, questa entra semplicemente a far parte della tua vita e del tuo modo di vivere”» spiega la scrittrice. È ciò che è successo tra lei e la pistola. La Gordimer è rimasta sconvolta quando ha scoperto analogie tra la sparatoria al Virginia Polytechnic Institute e il suo romanzo del 1998, Un’arma in casa, la storia di un giovane che arriva a commettere un delitto passionale. Quello che Nadine Gordimer non dice è che ha già predetto il futuro in un altro romanzo, Sveglia!, del 2005: nell’autunno del 2006 la scrittrice è stata aggredita in casa da tre uomini disarmati, che le hanno rubato del denaro in contanti. «Quegli uomini avrebbero dovuto avere di meglio da fare, invece di rapinare due vecchie signore» disse all’epoca.
Nadine Gordimer sembra affrontare l’argomento senza battere ciglio; si rifiuta di pensare che l’episodio possa incrinare l’idea che ha del proprio paese: «Secondo me siamo rimasti un po’ sorpresi dalle tantissime cose accadute dopo il cambiamento» racconta, parlando della vita dopo l’apartheid. «I muri dell’apartheid crollavano, e noi abbiamo festeggiato, poi abbiamo dovuto guardarci in faccia… e devo dire che l’abbiamo fatto con molto coraggio e grande determinazione. Ci sono tante cose che non vanno, ma in Sudafrica è stato fatto tantissimo per superare il passato. Ora, però, abbiamo il tipico “mal di testa del mattino dopo”».
Alcuni cambiamenti, comunque, sono stati meno dolorosi, come l’emergere di voci in precedenza quasi costrette al silenzio dall’apartheid. Al PEN Festival Nadine Gordimer ha più volte difeso il lavoro di un amico, Mongane Wally Serote, poeta e romanziere nato a Johannesburg. Da giovane, oltre a scrivere opere in versi e in prosa, Serote era impegnato nell’ala militante dell’African National Congress. Secondo Nadine Gordimer sarebbero state molte le occasioni in cui Serote ha rischiato di finire ammazzato. Dopo aver trascorso un periodo negli Stati Uniti, è tornato in Sudafrica ed è entrato a far parte del primo governo liberamente eletto. «Pensi che passaggio radicale: dalla clandestinità al parlamento!» dice l’autrice.
Di recente la vita di Serote è cambiata di nuovo: ha lasciato il proprio incarico, è andato nello Zululand ed è diventato un sangoma, un guaritore tradizionale… uno sciamano, insomma. La Gordimer l’ha rincontrato non molto tempo fa e ha ricevuto un breve corso di rieducazione. «Gli ho chiesto: “Vuoi dire che fai filtri d’amore e di odio?”. Lui mi ha risposto: “Ma no, no”. E io: “Se vedi uno che sta male davvero, che ha i sintomi dell’HIV, per esempio, che fai, gli dai dell’acqua santa?”. E lui: “Ma no, figurati”. Poi ha aggiunto: “Nadine! Ma non sai proprio niente!” Allora io gli ho detto: “Okay, Wally, voglio sapere”. E così mi ha spiegato tutto quanto».
Un argomento su cui la Gordimer si rifiuta di essere “rieducata” è Günter Grass. La controversia sulla rivelazione, fatta dallo scrittore tedesco nella sua autobiografia, di aver fatto parte delle SS da giovane, non le ha fatto cambiare idea né sull’amico né sulle sue opere. In realtà, la scrittrice pensa che il clamore mediatico su Grass sia sintomatico di una cultura assuefatta agli scandali ma carente di contesto. «Nel 1944, quando Hitler ha capito che stava perdendo la guerra, se Günter Grass avesse detto: “Non mi arruolo”, l’avrebbero preso e ammazzato» afferma con sguardo fiero. «Perché non ha detto nulla? Be’, qualcosa ha detto… se legge i suoi libri, con la loro magnifica riflessione su ciò che è accaduto alla gente… non avrebbe mai scritto quei libri se non avesse vissuto quell’esperienza… Non riesco a fargliene una colpa: è stato costretto da circostanze inevitabili e imposte. Non poteva rifiutarsi».
A differenza di altri premi Nobel come Grass, Wole Soyinka o Dario Fo, ognuno dei quali ha pubblicato memorie autobiografiche che ripercorrono la propria formazione politica, Nadine Gordimer preferisce il silenzio. «Non amo parlare di ciò che io e mio marito abbiamo fatto quando eravamo attivisti» dice la scrittrice, mentre il viso si corruga in un’espressione severa. «Tre dei miei libri sono stati proibiti. Però mi è mancato il coraggio di battermi in prima linea. Per me, infatti, scrivere un libro di memorie avrebbe voluto dire riesaminare la mia vita privata e rivelarla, e credo che questa riguardi soltanto me. Penso che, della mia vita, le uniche cose che possano minimamente interessare agli altri siano i libri che ho scritto».
A parte questa differenza, è chiaro che Nadine Gordimer veda in Günter Grass affinità con la propria situazione; del resto anche lo scrittore tedesco aveva ammonito che la riunificazione delle due Germanie sarebbe stata più difficile di quanto affermato. La Gordimer riconosce che il Sudafrica è alle prese con un problema simile. I soldati, rimasti senza lavoro dopo la fine dell’apartheid, hanno trovato un nuovo impiego come mercenari per le milizie private: moltissimi di loro oggi combattono in Iraq. Il Sudafrica inoltre è invaso da armi abbandonate a causa delle guerre che si sono svolte o che sono tuttora in corso nei paesi confinanti. A Johannesburg è facile procurarsi un kalashnikov. «Voglio dire, oggi avere un’arma è come avere un gatto in casa» spiega la scrittrice. «Se ne sta buona lì, sullo scaffale. E non la puoi mica nascondere, perché se qualcuno ti entra in casa devi averla a portata di mano. Ed ecco che diventa un oggetto come tanti altri. Ed ecco quindi anche i casi di cronaca nera, come questo, recentissimo: un ragazzo, arrabbiato con l’insegnante, prende la pistola che ha a casa e gli spara».
Rimangono anche problemi legati al razzismo, che faranno parte della sua raccolta di racconti Beethoven era per un sedicesimo nero, il cui titolo deriva da una notizia che ha sentito alla radio. «A volte sono i corvi che ti portano da mangiare» dice, illuminandosi in un sorriso. «Ascoltavo un canale di musica classica, di quelli dove c’è chi mette i dischi, come una volta, e poi spiega. Presentando una delle opere di Beethoven, lo speaker ha detto: “A proposito, Beethoven era per un sedicesimo nero”. Questa cosa, la questione del DNA, mi ha davvero affascinato».
In prossimità del suo ottantaquattresimo compleanno, Nadine Gordimer pubblicherà un’altra opera di narrativa, settant’anni dopo il suo esordio letterario, un racconto sulle pagine domenicali di un giornale sudafricano. Ma difficilmente riuscirà a festeggiare: ora come ora tutta la sua attenzione è rivolta a sostenere un altro scrittore al Man Booker International. «Io e gli altri giudici dobbiamo incontrarci ancora una volta; lo faremo a Dublino e là, finalmente, arriveremo al dunque. Ognuno di noi ha uno scrittore che preferisce. Uno dei vantaggi di questo incarico è stato il grandissimo lavoro di lettura: abbiamo dovuto prepararci bene».
Da John Freeman, Come leggere uno scrittore
Non succede spesso che uno scrittore apra le porte della propria officina letteraria, rivelando cosa si nasconde dietro alle parole che leggeremo (e ameremo) e cosa si nasconde dietro alle parole che non leggeremo mai. Ancora più raro è trovare un libro in cui a raccontarsi sono più di cinquanta grandi autori della narrativa e della saggistica contemporanea, diversi per pubblico, genere e stile: da David Foster Wallace a Tom Wolfe, da Philip Roth a Günter Grass, da Ian McEwan a Toni Morrison, da Don DeLillo a Oliver Sacks. Se poi a raccogliere queste “confessioni” è John Freeman, direttore di Granta, rivista-culto che ha scoperto e pubblicato il gotha della letteratura anglo-americana dell’ultimo secolo, allora ci troviamo di fronte a un caso editoriale più unico che raro.