– Nuove uscite –
Saggistica: La resilienza del panda di Cyrille Barrette
Dal 10 settembre in libreria e in e-book La resilienza del panda di Cyrille Barrette.
di Gabriele Del Grande – fotografie di Alessio Genovese
Dopo la Prima guerra mondiale si è ribellata all’Impero ottomano. Dopo la seconda ha conquistato l’indipendenza. Dopo la guerra che infuria oggi, invece, la Siria potrebbe smettere di esistere. Mentre il mondo guarda altrove, il Paese si sta disintegrando e rischia di trascinare con sé gli Stati circostanti e di alimentare il jihad. Già 70.000 morti, in gran parte civili. E cresce il potere dei Fratelli musulmani e degli islamisti radicali. Che ne sarà della Siria? Per Oxygen, un reportage esclusivo da Aleppo.
«Che dio ci protegga! Non sto né con il regime né con l’opposizione. Bashar ci bombarda e quelli dell’esercito libero ci derubano. Aleppo era un gioiello. Oggi non ci sono elettricità, gas, acqua, telefono. Niente. Io ho cinque figli, mio marito è morto sotto una bomba e devo venire a elemosinare il pane. Come siamo arrivati a questo punto? Chi ha seminato nei cuori dei nostri ragazzi tutto quest’odio? Anche i soldati del regime sono i nostri figli. Chi ci guadagna da tutto questo sangue?». Le donne intorno ad Amal approvano. Saranno duecento. Molte hanno in braccio i bambini. Sono in fila da tre ore davanti a una palazzina di Masakin Hananu, ad Aleppo, per ritirare un pacco di viveri. Alcune sono vedove di combattenti dell’esercito libero. Altre di soldati del regime. Ma ai loro occhi non fa molta differenza: chiamano martiri gli uni e gli altri.
Di là dalla cancellata si fa avanti un signore di mezza età. Si chiama Yusef ‘Abbud. Brizzolato, la barba curata. Scambia due parole con alcune signore, con un tono rassicurante. Poi ordina ai ragazzi di iniziare la distribuzione. Nelle buste nere ci sono olio, zucchero, riso, sale e farina. ‘Abbud è un comandante dell’Esercito libero siriano, ma oggi non indossa la mimetica. È venuto in veste di presidente del Comitato per la diffusione del bene (Hayat Amr bil Ma’ruf), il braccio civile del Fronte islamico per la liberazione della Siria (Jabhat Tahrir Suriya al Islamiya), la nuova coalizione islamista dell’esercito libero. La più importante per numero di combattenti e per peso politico.
«Ci siamo appena costituiti – mi spiega ‘Abbud – e contiamo già più di 125 battaglioni tra i più importanti: Liwa al Tawhid, Liwa al Fateh, Kataib al Faruq, Liwa al Nasr. Più di 30.000 combattenti, praticamente tutta la corrente islamica moderata dell’Esercito libero. La nostra unione è il primo passo verso la costruzione di uno Stato islamico moderato».
I finanziamenti di questa nuova formazione arrivano sia da uomini d’affari siriani vicini ai Fratelli Musulmani, sia dai governi di Qatar e Turchia. E da un’organizzazione caritatevole islamica turca arrivano gli aiuti alimentari che ‘Abbud sta distribuendo alle donne.
«Lavoriamo su tre fronti. Il primo è il jihad, la guerra contro le forze del regime. Il secondo è la sicurezza delle zone liberate: abbiamo formato una Polizia rivoluzionaria islamica e dei Tribunali islamici. Il terzo sono gli aiuti. Il popolo vive in condizioni di estrema povertà. Assistiamo migliaia di sfollati ad Aleppo che hanno perso la casa sotto le bombe. Stiamo ripulendo le piazze dalle montagne di spazzatura, presto ripareremo la rete elettrica, stiamo riaprendo le scuole e rifornendo gli ospedali di medicine».
Resistenza armata, sicurezza e servizi sociali. Così gli islamisti provano a costruire il consenso nelle aree di Aleppo liberate dal regime. Prima però hanno dovuto riportare un po’ di calma in città, cambiando strategia militare. Meno guerriglia urbana e più attacchi mirati a posti di blocco, convogli, basi e aeroporti militari del regime. Così negli ultimi tre mesi sono cadute le principali basi da cui il regime bombardava Aleppo. Basi da cui i combattenti dell’Esercito libero hanno saccheggiato armi e munizioni in gran quantità. Comprese quelle che gli Stati Uniti avevano vietato di inviare all’opposizione siriana. Carri armati, lanciamissili, mortai, antiaerea. L’aviazione del regime continua a bombardare la città, ma con meno intensità. Da un lato perché gli aerei devono decollare da Homs e Hama, visto che il regime non ha più aeroporti né a Aleppo né a Idlib. Dall’altro perché ormai il grosso dei combattimenti si è spostato a Damasco.
Così tra le macerie di Aleppo si è aperto un nuovo fronte. Stavolta però non si combatte con le armi, ma con aiuti e servizi. In palio c’è il consenso per il governo di domani, per la Siria del dopo Assad. La partita è tra il blocco degli islamisti moderati e gli islamisti radicali del Fronte della Vittoria (Jabhat al Nusra) i quali, dopo aver guadagnato consensi sul fronte, hanno riportato ordine in città mettendo fine ai saccheggi praticati dall’Esercito libero.
Nel vuoto creato dalla guerra, infatti, nelle file dell’esercito libero di Aleppo si sono infiltrate vere e proprie bande di ladri. Che pur essendo una sparuta minoranza hanno fatto molto parlare di sé per le rapine, i sequestri di persona e le estorsioni sul prezzo della farina per il pane. Fino a quando nella città sono stati aperti i primi due tribunali: due corti islamiche che applicano le leggi religiose della shari’a e che sono sotto il controllo degli islamisti radicali del Jabhat Al Nusra.
Gli americani li accusano di essere vicini ad Al Qa’ida. L’esercito libero ha aperto loro le porte come a dei buoni alleati. In Siria gli estremisti del Nusra sarebbero almeno 4000. Indossano abiti tradizionali, non fumano, non bevono alcolici, non ascoltano musica e sono i migliori in battaglia per quel culto del martirio che gli fa quasi desiderare la morte. Il 15% sarebbero stranieri, giovani religiosi accorsi in Siria da tutto il mondo per difendere con le armi la comunità musulmana sunnita oppressa. Gli altri sono ragazzi siriani affascinati dal discorso religioso del Nusra e desiderosi di liberare il Paese dal regime.
I sentimenti della gente verso il Nusra sono un misto di timore e rispetto. Timore perché l’islam radicale e l’idea di un califfato islamico sono lontani dal comune sentire. Rispetto, perché proprio per la loro devozione religiosa, gli uomini del Nusra si stanno rivelando non soltanto i migliori in battaglia, ma anche i più onesti in città nei rapporti con i cittadini.
Tuttavia, nonostante il potere e il consenso che si è guadagnato il Nusra ad Aleppo in pochi mesi, gli islamisti moderati non sembrano essere preoccupati. Il generale Khalil, capo del consiglio militare curdo dell’esercito libero e membro del Fronte islamico per la liberazione della Siria, è sicuro che la Siria prenderà un’altra strada. E non soltanto perché i radicali del Nusra sono una sparuta minoranza dell’esercito libero. «La società siriana è plurale. Siamo fatti per il 40% da minoranze. Non possiamo fare uno stato islamico. Dove mettiamo i cristiani, gli sciiti, gli alawiti? L’unica soluzione è uno stato democratico con un grande partito islamico popolare. Sarà il voto a decidere. Ma la Siria deve continuare a essere un esempio di convivenza tra religioni per il mondo intero. È la nostra storia. È la nostra civiltà. E ne siamo fieri».
Difficile però fare previsioni quando a decidere sono le armi e non il pensiero. L’eco degli spari e delle esplosioni ricorda agli abitanti di Aleppo che la guerra è solo all’inizio. Dal fronte continuano a fare avanti e indietro i furgoncini scassati dei combattenti volontari dell’esercito libero. Sono ragazzi qualunque: Mostafa faceva il commerciante, Yusef il falegname, Ahmed l’informatico. Le armi le hanno comprate di tasca propria e alla rivoluzione ci credono davvero. Te ne accorgi dalle loro storie.
Molti di loro due anni fa erano a manifestare, quando nella primavera del 2011 le piazze siriane si sollevarono, sull’onda dei movimenti popolari che avevano portato alla caduta delle dittature in Tunisia ed Egitto. Per sei mesi la protesta rimase non violenta, nonostante la brutalità della repressione, e nonostante le centinaia di morti ogni settimana: nelle manifestazioni sotto gli spari della polizia o nelle galere sotto i ferri della tortura. Fino a quando, sconfortati dall’immobilismo della comunità internazionale e corteggiati dai petroldollari dei Paesi del Golfo nemici di Assad, un gruppo di ufficiali disertori diede vita all’Esercito libero siriano. Era l’agosto del 2011. All’inizio si limitarono a proteggere le manifestazioni dagli attacchi delle forze di sicurezza. Quindi, sostenuti dal Qatar, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e dagli USA, scelsero la soluzione militare, iniziando ad attaccare le forze del regime nelle campagne e in città.
I ragazzi dell’esercito libero continuano a credere che quella fosse l’unica scelta possibile. E l’unica scelta giusta. Ma non tutti la pensano così in Siria. Soprattutto gli attivisti del movimento pacifista. La guerra li ha tagliati fuori. La voce delle armi copre la voce di qualsiasi corteo e di qualsiasi sciopero o iniziativa civile. Così, spesso dall’esilio, vedono il Paese trascinato in un bagno di sangue dal regime e dai suoi alleati. Ormai i morti sono almeno 70.000, in gran parte civili. E in quel bagno di sangue vedono avanzare il consenso dei fratelli musulmani e degli islamisti radicali, gli unici ad avere un sostegno da parte dei Paesi del Golfo, che in Siria giocano una partita contro l’Iran.
Per gli attivisti siriani del movimento pacifista la rivoluzione è finita con l’inizio della guerra. Farzand ne è convinto. È un medico curdo di Aleppo sulla quarantina, padre di due bambini. Un anno fa era sceso in piazza contro il regime. Oggi ha lasciato la Siria per mettere in salvo la famiglia. Parla con le lacrime agli occhi, soppesando ogni parola, come se ammettesse per la prima volta una sconfitta. «Un anno fa avevamo un sogno. E non era solo la fine del regime. Il nostro sogno era la costruzione della Siria del futuro. Dopo 40 anni di dittatura e di terrore, il popolo siriano aveva sconfitto la paura, avevamo ritrovato la dignità e ripreso a sognare. La guerra ha ucciso tutto questo. Non voglio che cada il regime del Ba’ath se poi arriva un altro regime, magari islamista. E non voglio che cada il regime se il prezzo da pagare è il sangue di decine e decine di migliaia di innocenti».