11 settembre 2001 – Un estratto da “I have landed” di Stephen Jay Gould

11settembre[Immagine: Kevin Lu, Instagram]

 

«Io possiedo una vasta collezione di libri scientifici antichi, alcuni dei quali con splendide rilegature e tavole illustrate, altri che risalgono agli esordi della stampa, alla fine del XV secolo. Ma il pezzo più prezioso, quello che nella mia collezione è la perla senza prezzo, fu pagato cinque centesimi quando Joseph Arthur Rosenberg, un immigrante tredicenne appena sbarcato dalla nave che l’aveva portato qui dall’Ungheria, lo acquistò il 25 ottobre 1901. Questo libro, Studies in English Grammar, scritto da J.M. Greenwood e pubblicato nel 1892, reca un piccolo timbro che identifica il luogo dell’acquisto: “Carroll’s Book Store. Libri antichi, rari e curiosi. Fulton and Pearl Sts. Brooklyn”.
Lo sbarco di Joseph Arthur Rosenberg, il mio nonno materno Papa Joe, segnò l’inizio della storia americana della mia famiglia. Papa Joe arrivò con sua madre Leni e con le due sorelle (le mie zie Regina e Gus) in terza classe a bordo della SS Kensington, salpata da Anversa il 31 agosto con 60 passeggeri di prima classe e 1000 in terza. Il manifesto dei passeggeri registra l’arrivo di Leni, con 6,50 dollari per cominciare la sua nuova vita in America. Papa Joe aggiunse un altro frammento di informazione alla data dell’acquisto del libro e al suo nome, scritto sul frontespizio: con la massima concisione e usando fra tutte le parole possibili quelle più eloquenti, annotò: «I have landed. September 11th, 1901».
L’11 settembre 2001 avevo intenzione di visitare Ellis Island; nel centenario della mia famiglia, volevo andare – insieme a mia madre, l’unica sua figlia sopravvissuta – nel punto in cui Papa Joe era entrato in America. Il mio volo da Milano, che sarebbe dovuto arrivare a NewYork a mezzogiorno, atterrò invece ad Halifax: proprio nel momento in cui il grandioso panorama del vecchio e del nuovo – la Statua della Libertà con Ellis Island adiacente e le Torri gemelle svettanti sopra – divenne un sepolcro per 3000 persone sacrificate alla malvagità umana, nel centesimo anniversario della nascita di una piccola linea familiare americana.
Papa Joe visse una vita comune, a New York, come operaio nell’industria dell’abbigliamento. Ebbe periodi di sicurezza economica e sopportò momenti di povertà; lui e mia nonna allevarono quattro figli, tutti imbevuti dei consueti valori che nobilitano la nostra specie e il nostro popolo: lealtà, bontà, la necessità di essere costanti e di sollevarsi grazie ai propri sforzi. Come nel classico modello, la sua generazione si dibatté per far fronte ai debiti; i miei genitori presero il diploma alle superiori, combatterono una guerra ed entrarono nella classe media; la terza generazione si è conquistata un’istruzione universitaria, e alcuni di noi hanno avuto successo nelle rispettive professioni.
La storia di Papa Joe è un faro che illuminerà, nella luce della speranza e della bontà, il folle atto di spettacolare distruzione che avvelenò il suo centenario. D’altra parte, la sua storia non prevarrà per una qualsiasi pretesa di coraggio, dolore o sofferenza fuori dalla norma, ma proprio grazie alla sua assoluta convenzionalità. La sua storia è quella di quasi tutte le famiglie americane, iniziate dal nulla, straniere in terra straniera, e giunte infine alla prosperità, spesso con una gratitudine ritardata di alcune generazioni, grazie al duro lavoro accumulato giorno dopo giorno; una storia realizzata nell’onestà e nella lealtà.
Soprattutto in un’epoca tecnologica, quando gli aeroplani possono diventare bombe potenti, rari atti di depravazione sembrano sommergere il nostro paesaggio – geografico e psicologico. Ma la comune bontà umana, espressa in un miliardo di piccoli gesti compiuti da milioni di brave persone, costituisce un contrappeso ben più importante, troppo spesso invisibile perché manca di una pari capacità di “far notizia”. Il rivoletto di una famiglia iniziata l’11 settembre 1901, moltiplicato per molti milioni di storie simili e “comuni”, sommergerà la malvagità di pochi, messa in atto l’11 settembre 2001.
Sono stato a Ground Zero e ho contemplato la maestà delle rovine contorte della più grande struttura costruita dall’uomo mai abbattuta in un solo catastrofico istante. E ricordo le parole del discorso di Lincoln a Gettysburg, parole che hanno fatto spazientire tutti noi quando ci toccò impararle a memoria, in quinta elementare, e che oggi tuttavia sembrano così pregne di significato nella loro rinnovata rilevanza. Erano circa 150 anni, dai tempi di Gettysburg e di qualche altra battaglia della guerra civile, che la nostra nazione non era più stata testimone di un simile giorno di morte: «E qui noi solennemente deliberiamo che questi morti non saranno morti invano».
Il terzo capitolo dell’Ecclesiaste comincia, nel passo citato in apertura, con una contrapposizione fra la nascita, seguita dalla morte. La coppia successiva di affermazioni, però, inverte l’ordine, e dà voce a un coriaceo ottimismo. Il versetto 3 fa seguire alla distruzione la ricostruzione: “Tempo di uccidere, tempo di curare, tempo di demolire, tempo di costruire”. E il versetto 4 trascina poi la sequenza dalla risoluta determinazione alla gioia finale: “Tempo di piangere, tempo di ridere, tempo di lutto, tempo di baldoria”.

La mia città natale di New York e insieme a lei tutto il mondo hanno dolorosamente sofferto l’11 settembre 2001. Ma il messaggio lasciatoci da Papa Joe l’11 settembre 1901, opportunamente esteso a miliardi di persone, trionferà attraverso l’operato della comune bontà umana. We have landed. La Statua della Libertà solleva ancora la sua lanterna accanto al Golden Gate – la “porta dorata”. E quella porta conduce all’esperimento di democrazia più grandioso – e in larga misura riuscito – mai tentato nella storia umana, sostenuto grazie alla fondamentale bontà esistente nella più ampia diversità di etnie, economie, geografie, lingue, costumi e occupazioni che il mondo abbia mai conosciuto sotto forma di una singola nazione. Combattemmo la nostra battaglia più sanguinosa per conservare al nostro motto – e pluribus unum – il suo carattere di vibrante realtà. E adesso noi vinceremo, perché l’umanità comune gode di un vantaggio schiacciante: milioni di brave persone contro ogni malvagio psicopatico. Ma prevarremo solo se riusciremo a mobilitare questa latente bontà, in una vigilanza attiva e permanente. Nel mio centenario, il centenario di Papa Joe, il versetto 7 riassume la nostra necessaria condotta: Tempo di strappare, tempo di cucire, tempo di tacere, tempo di parlare».

Stephen Jay Gould, I have landed

 

Stephen J. Gould - I have landedLe persone che hanno avuto la fortuna di conoscere, lavorare o anche solo chiacchierare con Stephen Jay Gould, nonché i milioni di lettori dei suoi libri, ne ricorderanno la travolgente cultura enciclopedica. La curiosità e la passione per ogni espressione della creatività umana – dalla scienza alla politica, dall’arte al baseball, dalla letteratura ai Simpson – sono state infatti la cifra del suo percorso biografico e intellettuale; una divertente e divertita varietà di scrittura che in questa raccolta di saggi trova una delle sue massime espressioni. Gould, scienziato e autore di libri specialistici e divulgativi, fu anche instancabile editorialista per riviste e giornali, tra cui “Natural History”, “Time” e “New York Times”; saggi dove le riflessioni sull’evoluzionismo, e sul suo impatto nella società contemporanea, convivono perfettamente accanto a quelle sui legami tra scienza, arte e letteratura e tra storia mondiale e personale (l’11 settembre 2001 è stato anche il centesimo anniversario dello sbarco a Ellis Island del nonno di Gould, dal cui diario è tratta la curiosa espressione del titolo). I Have Landed è l’ultima antologia di quegli articoli, curata dallo stesso Gould poco prima della sua prematura scomparsa; uno spaccato completo della sua scrittura, capace di trasmettere il talento, la lievità e l’acume di uno degli intellettuali più influenti del Novecento.

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